
Mi è capitato più volte di vedere dal vivo Mark Eitzel e, ogni volta, mi sono trovato a chiedermi come mai non sia mai realmente riuscito a sfondare, nonostante delle possibilità ci siano state e, soprattutto, a dispetto dell’incredibile talento dimostrato nello scrivere canzoni. Eppure ci fu un tempo in cui i lavori dei suoi American Music Club uscivano su Major e i loro video giravano su MTV, così come innumerevoli sono i suoi dischi solisti giustamente lodati dalla critica, da un album stupendo come West, prodotto da Peter Buck dei R.E.M. (all’epoca, band all’apice della fama), fino all’ultimo Hey Mr Ferryman, ormai risalente al 2017, esempi virtuosi di una discografia fatta di fisiologici alti e bassi, ma mediamente sempre dignitosa. Nel frattempo, mentre uno come Mark Kozelek, anch’egli di San Francisco e all’epoca dei Red House Painters immaginato come rivale di Eitzel – perché entrambi fautori di una canzone introspettiva, sofferta e malinconica – uno status di piccola rockstar indubbiamente l’ha raggiunto, facendo tranquillamente sold out ovunque vada e suonando nei grandi festival, a volte persino come headliner, Mark Eitzel, pure in una città come Milano, si ritrova a suonare davanti a uno sparuto drappello di appassionati, che di certo ne apprezzano le gesta, ma risultano essere inevitabilmente pochi vista la statura del personaggio.
Il concerto si tiene nella piccola Palestra Visconti dell’Arci Bellezza a Milano. Davanti al minuto palco sono state messe delle sedie, che chiaramente riducono la capienza di 150 persone circa della sala, eppure neppure quelle sono tutte piene. In apertura c’è Andrea Van Cleef, cantautore bresciano che propone le sue canzoni dark folk con un vocione profondo quasi alla Lanegan, in larga parte estratte dal suo ultimo Horse Latitudes. Come già detto in passato, i suoi pezzi sono molto belli e in linea con la tradizione ombrosa di una certa canzone d’autore americana e ha un modo di porsi onesto, ma anche molto professionale.
Quando, dopo una pausa di neppure 5 minuti, arriva sul palco Eitzel, si capisce però cosa vuol dire vivere davvero le canzoni sulla propria pelle. Nella sua voce, resa roca da un mal di gola e da una tosse che all’inizio fanno un po’ temere per la tenuta del concerto, c’è tutto il tormento di pezzi rosi dalla passionalità e attraversati da un’intensità che è rara e che non puoi fingere. La tecnica chitarristica è quella che è, lo ammette lui stesso, e la presenza scenica quasi nulla, anzi, in qualche modo dimessa, umile, che a volte lo spinge a scusarsi e non sai bene perché. Quando però dispiega la voce, c’è solo spazio per i brividi, per un’emozione sincera, così palpabile che forse è per questo che non può essere veramente fatta per troppe persone.
Qui e là racconta delle storielle prima delle canzoni – ma basta che un cellulare lo disturbi per interrompersi – imita, prendendoli per i fondelli, JD Vance e la moglie, manda via un fotografo da sotto il palco perché gli impedisce di concentrarsi, divide il repertorio tra cose soliste e quelle degli American Music Club (tirando fuori canzoni per me bellissime come I’ve Been A Mess, Why Won’t You Stay o Patriot’s Heart). In qualsiasi momento appare autentico, senza filtri, un uomo, prima ancora che un artista, che apre il suo cuore al pubblico.
Tanto più perché in versione voce e chitarra, inevitabilmente non c’è spazio per molte variazioni, ma nonostante questo lo show non annoia. Quando il tutto finisce, Mark si ferma a parlare un po’ col pubblico, ma quando lo vedo andar via con la sua chitarra, quasi sembra uno che sta per saltare su una macchina guidando lui stesso verso la prossima città in cui suonare le sue canzoni così intrise di vita. Probabilmente è la più classica delle proiezioni romantiche legate alla musica, quella del loser, e chiaramente spero non sia così davvero. Ad ogni modo, sulla via del ritorno, in macchina, non posso far altro che allungare un po’ la magia, continuando ad ascoltare le sue canzoni bellissime. Fatelo anche voi.