Foto © Rodolfo Sassano

In Concert

Marcus King Band live a Milano, 20/10/2024

È stata la serata delle sorprese, quella del 20 ottobre al Fabrique di Milano: innanzitutto, personalmente, dopo aver sentito dire peste e corna della location, ho dovuto felicemente ricredermi perché l’ho trovata del tutto idonea oltre che dotata della giusta acustica, anche se quest’ultima dipende in buona misura della destrezza dei fonici. Pubblico numeroso: altra bella sensazione, soprattutto per la presenza di parecchie donne, di giovani coppie, di ragazzi under-30, di padri con figli adolescenti o poco più. Insomma, forse per il rock’n’roll c’è ancora un futuro, alla faccia di Sting che lo aveva dichiarato morto più di trent’anni fa. Solitamente ai concerti di rock-blues, o rock sudista, il pubblico è tutt’altro che vario; invece, stavolta Marcus King ha potuto suonare per un pubblico composto da svariati millennials come lui.

Accompagnato da un quartetto differente dalla più numerosa e articolata band degli esordi, il chitarrista del North Carolina ha messo insieme una solida performance, durata un paio d’ore, in cui ha fatto convogliare tutte le sue influenze musicali, dal southern rock primordiale dei dischi accreditati alla Marcus King Band, a quello più poliedrico (ma non sempre del tutto convincente) dei dischi incisi come solista dopo essersi affidato alle cure di titolati produttori.

I due lavori con Dan Auerbach, e il più recente con Rick Rubin, soffrono eccessivamente per l’onnipotenza e onnipresenza dei due uomini dietro il bancone, divenuti ormai dei prezzemolini narcisisti sempre osannati (anche troppo a volte) sebbene tendano a snaturare l’essenza dei loro clienti (un po’ come Daniel Lanois) a favore del loro tornaconto. Auerbach, poi, col fatto di mettere sempre anche la firma come autore alle canzoni che produce, è diventato davvero fastidioso.

Tornando al concerto milanese e al quartetto che ha accompagnato King, non siamo riusciti a cogliere i nomi dei musicisti, anche se con ogni probabilità della band originale è rimasto solo il batterista Jack Ryan. La sezione ritmica, puntuale ed essenziale nell’esecuzione dei brani di stampo Stax del recente Mood Swings, è stata altrettanto inventiva e pirotecnica nei momenti del concerto più orientati alla jam; a creare i paesaggi sonori su cui la voce e la chitarra del leader hanno esaltato il pubblico, c’erano invece un bell’organo Hammond e una chitarra slide che all’occorrenza ha fatto anche le parti di ritmica.

Dal canto suo il protagonista principale è apparso in forma: ha perso parecchio peso rispetto a qualche tempo fa, si è ripreso dalle dipendenze, è innamorato e in scena si presenta con l’immancabile cappello da cowboy, lunghe basette da rocker sudista anni Settanta e un completo western, che forse avrebbe necessitato un intervento sartoriale. Dopo un’intro morriconiana (indicata dai cronisti americani che curano i siti con le setlist come il tema di Il Buono, Il Brutto E Il Cattivo, ma a noi è sembrata più una citazione che un vero e proprio remake), il concerto entra subito nel vivo, il gruppo esegue senza soluzione di continuità The Well, Hero, Beautiful Stranger, This Far Gone e Inglewood Motel mescolando abilmente le carte del primo disco del King solista con quelle del terzo.

Il pubblico risponde con tenacia ed entusiasmo, gli applausi a scena aperta non mancano, non sono pochi quelli che si lanciano nel sing-a-long. Sorpresa delle sorprese, a circa un terzo del concerto arriva una cover da urlo di Good Time Charlie’s Got The Blues, immortale canzone di Danny O’Keefe (stava sul suo omonimo disco in cui figurava pure The Road) portata al successo da Elvis: una sorta di doppio omaggio, dunque, quello di Marcus King, la cui rilettura è fatta con originalità. Un’altra cover, a sorpresa è, tratta dall’Harvest di younghiana memoria, Are You Ready For the Country, ovvio spunto per un duetto solista tra Marcus e la slide del suo compare Drew Smithers, costretto tra l’altro a suonare una Custom del 1976, in quanto le sue chitarre sono sparite nel volo di trasferimento da Madrid (sede del concerto precedente) a Milano.

Honky Tonk Hell prelude a una lunga e intensa Save Me, nuovamente dall’ultimo disco, accolta dall’ennesimo applauso a scena aperta da parte di un pubblico ormai in delirio, che non manca di accompagnare il cantato del refrain. Un breve set acustico vede il solo Marcus alle prese con Bipolar Love, ancora dal disco prodotto da Rubin, l’inedita Die Alone e l’immancabile, fantastica Goodbye Carolina, dal capolavoro Carolina Confessions, con la band che rientra a fornire il background strumentale.

Gran finale jam con Fuck My Life, Lie Lie Lie (da Young Blood)con un solo di basso e batteria che sfocia in Rice Pudding del Jeff Beck Group. Il concerto a questo punto sarebbe terminato, ma il pubblico non ne vuol sapere, Mark torna in scena, di nuovo in versione acustica per una splendida Delilah e per Wildflowers And Wine (da Eldorado); a questo punto tornano anche gli altri quattro e si scatena l’apocalisse con la lunga cavalcata di Rambling Man, omaggio al rock sudista a 360° e in particolare all’Allman Brothers Band.

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