PREMESSA
Questo testo è stato scritto interamente, di getto e senza successive revisioni, nella notte tra il 21 e il 22 marzo. Tra le seguenti righe ho semplicemente raccolto a tempo di record un esplicito invito telefonico del Direttore per portare tra le pagine del Busca una piccola esperienza personale senza confini, vissuta proprio nell’immediata vigilia della maledetta emergenza. Una frenetica avventura che, ingabbiata dal successivo e drammatico periodo di blocco totale, mi auguro possa risultare di buon auspicio per una futura ripresa, fianco a fianco, vivi e vegeti, magari persino migliorati, entusiasti e curiosi come sempre, assecondando le nostre passioni comuni.
Chi avrebbe potuto immaginarlo? Chi avrebbe potuto anche solo ipotizzare che quella doppia trasferta quasi senza soluzione di continuità, rocambolesca perché in parte obbligata e complessa perché quasi forzata nella sua organizzazione, avrebbe potuto trasformarsi in un autentico e terribile spartiacque? Un serenissimo ‘prima’, un rimbalzante e umido ‘durante’, un catastrofico e doloroso ‘poi’.
Quella che, in origine, avrebbe dovuto essere una semplice missione concertistica sull’asse Londra–Parigi nell’arco di soli sei giorni, passando in entrambi i casi attraverso lo scalo aeroportuale di Venezia, aveva infatti preso il via senza neppure l’idea o l’ossessione di doverla documentare visivamente (o anche attraverso semplici appunti su notes), per fissare ricordi, emozioni, insegnamenti e sorprese in vista di un lungo e gravoso digiuno forzato. Quindi, questo sia chiaro, più che una recensione (per nulla pianificata e, ora più che mai, per nulla necessaria), quello che segue diventa un semplice diario di viaggio postumo e corredato dal solo supporto della memoria, nonché da una serie di scatti altalenanti che, talvolta, approfittano della qualità non professionale di un’obsoleta Nikon e in altri casi dell’archivio fotografico di un banale smartphone targato mela rosicchiata, neppure di ultimissimo pelo.
Prima della grande emergenza, dunque, queste sortite internazionali dell’ultima settimana di febbraio sotto una pioggia incessante erano diventate due per una semplice questione di forza maggiore. Inizio con la prevedibile umidità londinese, prosecuzione con quella ben più infingarda trovata in terra parigina. E, per farla subito corta, senza l’ombra di un controllo, di una mascherina (neppure gli orientali a zonzo…), di un guanto di lattice o di un colpo di tosse. Solo all’aeroporto di Venezia, timidamente, qualche rarissimo (ma rarissimo davvero…) esemplare di italiano blandamente mascherato all’insegna del ‘togli e metti’, dei ‘fai cadere a terra e poi riposiziona sul volto’, ‘moglie no, marito sì, figli uno sì e uno no’, del ‘tieni ben fissata fino a sotto gli occhi ma poi circoli tra i corridoi del Marco Polo (lo giuro…) in canotta, shorts e infradito con piedi scalzi, chiudendo il percorso nei cessi senza neppure lavarsi le mani a pratica espletata’. Ciò predetto, va sottolineata dunque una sorta di serenità generale e personale; un’abitudine consolidata a un comportamento igienicamente oculato o, forse, solo un pizzico (ma evidente solo con il senno di poi) di incoscienza.
Londra – Trattavasi del secondo annullamento consecutivo per giustificatissimi problemi di salute della data del povero John Prine alla Royal Festival Hall di Southbank che, già nel settembre scorso, mi aveva regalato la possibilità di slittare in extremis verso una gustosa serata a tre sotto la storica volta dello Shepherd’s Bush Empire con gli stagionati Kentucky Headhunters, gli ancora travolgenti Jason & the Scorchers e Dan Baird con i suoi Homemade Sin sul palco in ordine di apparizione. In attesa di riparlare con ostinata scaramanzia di Prine nel febbraio 2021 a Edimburgo, dunque, in questo febbraio i miei interessi personali per colmare il vuoto sono stati dirottati verso due situazioni diametralmente opposte. Prima lo show inaugurale di Booker T. Jones sul palchetto, e avvolto dalla classe sopraffina, del Ronnie Scott’s di Soho, affiancato dal rigoroso figlio Ted alla sei corde con sezione ritmica composta da Melvin Brannon e Darian (con la ‘a’ e non la ‘o’) Gray. E poi, la sera successiva, nella ben più viscerale e spartana Electric Ballroom di Camden per salutare Marcus King che, nonostante il recente e gustosissimo album da solista, si ripropone ancora nel formato tradizionale sotto l’egida della M.K. Band. Non essendo questa una recensione vera e propria, e neppure un reportage, basterà ricordare che al Ronnie Scott’s vige la giustificata e rispettatissima legge del ‘niente foto e niente video’. Quindi, per la prima uscita di una settimana intera senza pause e con tutti posti rigorosamente sold out (intorno ai 200) dalla prima all’ultima replica, l’avvio è legato a un’eccellente apertura regalata da Marcus Bonfanti & the Delta Trio: Jay Darwish al contrabbasso e Bubu DJT alle percussioni. Una prelibata e varia mezzoretta di black music sporchissima tra New Orleans e il Delta con l’ex trombettista passato con successo alla chitarra, famoso anche per la militanza nei Ten Years After di ultima generazione (aveva preso il posto di Joe Gooch, successore di Alvin ‘I’m going home’ Lee) e un British Blues Award alle spalle come solista per la gioia del babbo italiano. Una zazzera lunghissima e tanto di barbetta tra Gary Rossington e il vecchio Dave Grohl; un sacco e una sporta di talento e personalità da gettare sulla bilancia con successo in un set tendente all’acustico rugginoso, prima di uscire di scena tra gli applausi meritati e copiosi. Booker T., invece, da autentica leggenda gioca appunto a fare la leggenda. E, anche senza la premiata ditta Cropper & Dunn (gli M.G.’s) al fianco, si destreggia tra i tasti bianchi e neri e la chitarra elettrica limitandosi in maniera compassata a prendere le misure iniziali con la lunga residenza settimanale sold out in una sala intima e trasudante storia, unendo all’intimità del contesto la sua misurata perizia che, ovviamente, non può essere confrontata con il brutale calore espressivo di quasi coetanei ottuagenari come Buddy Guy (83 a 75 per la leggenda di Lettswoth). Una lectio magistralis mai oltre misura e caratterizzata da una buona condizione vocale, ampio retaggio dai tempi che furono, cover azzeccate (Blue Jeans Blues delle barbacce, Ain’t No Sunshine di Bill Withers e Havana Moon di Chuck Berry via Santana) e altre inutili (Purple Rain) per una scaletta di dodici pezzi non del tutto prevedibile (sì, ha eseguito anche Green Onions!). Poco incentrata sul recente e ottimo davvero Note by Note con un’implacabile flessione dovuta alla scelta di leggere un ‘breve’ passo (si fa per dire…) della recente autobiografia in fase di promozione, durato almeno dieci interminabili giri di lancette tra gli sbadigli generali. Compresi quelli dei madrelingua che evidenziano rispetto e devozione nei confronti di Booker T., ma che in soldoni si confermano ben poco ammaliati, divertiti o commossi dalle sue parole fino al timido applauso finale di mera educazione. Ovviamente, tributo solo lontano parente di quello fragoroso che arriverà invece a fine show, dopo un’oretta e un quarto abbondante, quale giustificata genuflessione davanti al c.v. del Nostro.
Tutto esaurito anche la sera successiva nello spartano mercato coperto di Camden High Street dove, salutata la comoda visuale in penombra della bomboniera di Soho e passati a una ressa che solo dieci giorni più tardi diventerà fuorilegge, dopo un’interminabile e incauta marcia sotto l’acquazzone da Kensington Gardens a Regent’s Park via Hyde Park e Baker Street, si sfiorano le duemila motivate presenze tra platea e balconata bar. Doverosa e meritata l’attenzione rivolta all’apertura concessa al set solitario del talentuoso nerd Sonny Brue (aprire per Lucinda Williams, John Moreland e Asleep At The Wheel non è proprio poca roba per questo atipico talento del giro Alabama Shakes) che pare il fratellino, appena di poco maggiore, dell’emergente baby italiano Leo Meconi, sedici anni da compiere e a sua volta già sul mercato con l’album quasi interamente autografo I’ll fly away. Due nomi, quelli di Sonny e Leo, da non dimenticare per nessun motivo: prendete nota! Marcus King, invece, è sempre lui e a ogni uscita lo scopro più rilassato, in pace con se stesso e con la sua stramba fisicità, carico di personalità e orgoglio. Talento, estro e passione, invece, sono ben noti fin dall’inizio delle nostre ‘frequentazioni’ (lo ricordo aprire senza timori reverenziali, nell’autunno 2016 all’Indigo at O2 di Greenwich, per la ‘data zero’ del paisà Little Steven con i ricostituiti Disciples of Soul) e perciò, leggermente dimagrito e diventato giustamente gigione con attenzione persino al look, oggi può permettersi il lusso di infastidirsi platealmente per qualche problemino tecnico di troppo, soprattutto su Virginia. Non so se dipendesse dall’acustica dell’Electric Ballroom o dalla mia specifica posizione in transenna, ma è parso subito chiaro che il calore e la morbidezza offerti attraverso le tracce di El Dorado non avrebbero costituito che una purtroppo minima parte del menù di serata. Suoni molto ruvidi e coprenti, alla Eric Sardinas o al talento italo-svizzero Joe Colombo, talvolta coprivano fino all’eccesso il lavoro della sezione fiati che diventava limpida solo in occasione degli assolo. La stessa chitarra di Marcus, cambiata a ripetizione, spesso e volentieri finiva occultata sotto un eccessivo muro di suoni (ma non quello di Phil Spector…) che, pur non deludendo, ha condotto uno show rabbioso e granitico da Turn it Up fino alla The Well finale, a suon di articolatissimi medley verso territori sonori assai diversi rispetto quelli che mi sarei atteso, nonostante le riverenze davanti a Willie Dixon, Son House e ai creativi della Motown. E che forse non valorizzano in maniera completa le qualità e le fantasie di questo ragazzone.
Parigi – Rientrato in Italia previo blanda misurazione della febbre con pistoletta Star Trek style al momento dell’atterraggio in terra veneta, la ripartenza verso Parigi avviene due giorni più tardi dallo stesso scalo e con la medesima atmosfera di cauta circospezione. Il doppio show di Beth Hart all’Olympia, il tempio di rosso vestito che domina boulevard des Capucines alle spalle dell’Opera Garnier, è infatti un’occasione unica per affrontare la prima uscita acustica e (quasi) in solitaria dell’intera carriera della tormentata reginetta di Los Angeles che approfitta delle tracce adattissime di War in my Mind per testarsi oculatamente tra piano, chitarra e voce. Su un palco essenziale ma elegante, arricchito solo da azzeccati giochi di luce e da una manciata di candele artificiali, Beth appare emozionata e tesissima nell’affrontare sia le incognite della serata, sia i consueti demoni personali che il calore della platea (sold out per entrambe le date e una pletora di preparati fedelissimi con tanto di delegazione italiana in evidenza nella speranza di rivederla a inizio agosto nell’anfiteatro del Vittoriale con il lago di Garda sullo sfondo) riesce ad allontanare quasi immediatamente. Solo il fedelissimo Jon Nichols la affianca con la sua chitarra per un set intermedio al centro del palco e, di questa vicinanza, tra una tazza di tisana e l’altra, lei pare guadagnarne sia in termini di espressività che di convinzione. Si vede che cerca il calore della gente e che di esso si nutre, caratterizzata da posture ed espressioni che ne rivelano debolezze e dolori, piuttosto che aggressività vocale e rabbioso senso di rivincita. Volano via così, modificando la scaletta in corso d’opera, una ventina di brani con tanto di omaggi a Tom Waits (Chocolate Jesus), Melody Gardot (If I tell You I Love You) e alla diva degli anni Trenta-Quaranta Connee Boswell (Lullaby of the Leaves). Uno show generoso (le attese Bang Bang Boom Boom e War in my Mind resteranno un’esclusiva di giornata per il pubblico della doppietta) e a tratti intimidito dalle prevedibili incertezze nel ruolo di strumentista pura e senza difese, condizionata anche dai recentissimi problemi di salute che l’avevano parzialmente debilitata a livello vocale. Uno show non impeccabile; però, unico e probabilmente irripetibile che accompagna la maturazione di un’artista a caccia di nuove certezze e pronta a lasciarsi alle spalle anche alcune eccessive ruvidezze del passato. Ad aprire entrambi i concerti, sconosciuto ai molti ma attesissimo da noi pochi, quell’autentico combattente di Kris Barras che, archiviata per sempre la carriera da striker e grappler (è stato a lungo un temuto professionista di mixed martial arts con un pregevole record professionale nella gabbia), ha ormai traslato stabilmente la sua marea di tatuaggi sul fronte musicale dove si esprime in maniera tutt’altro che minacciosa e caratterizzata da un alto spessore qualitativo. Il doppio set acustico, sempre affiancato dal fidato Josiah Jey Manning (without boots…) ne conferma capacità strumentali, doti compositive e intensità interpretativa anche davanti a ribalte importanti e senza base ritmica alle spalle con esplicito gradimento della platea per il suo repertorio autografo e non solo per l’azzeccata Midnight Rider a ridosso dei saluti. La serata dell’1 marzo, una domenica oltremodo piovosa che interrompe il leg europeo del tour, lasciando spazio a un ipotetico mese e mezzo di riposo (che, ahimè, diventerà ben più lungo e forzato), consente a Beth Hart di sparare le ultime cartucce dopo essersi lasciata alle spalle la prova per lei più ricca di incognite. I fuseaux e la canottierina nera modello radiografia del sabato sera, questa volta, restano nel backstage, lasciando spazio a un vestito amaranto, anche lui cortissimo e scollatissimo con effetto lotta alla gravità. Prima esce in borghese per introdurre l’amico Barras, poi si ripresenta sulle note sensuali di Tell Her You Belong to Me, raggiungendo la band dopo essersi palesata come abitudine, tra baci e abbracci, direttamente dal fondo della sala. Protetta e coccolata da Nichols, insieme a Bill Ransom (batteria) e Tom Lilly (basso e contrabbasso), tra una dedica, una richiesta assecondata e le scarpe calciate via, si rilassa offrendo due ore e dieci di esibizione teatrale ma non recitata, cruda ma non ruvida (attenzione: in rete sono disponibili, anche per il download, le riprese integrali dello show, registrato in maniera professionale e andato in onda quasi in tempo reale sulle frequenze transalpine di Arte.Tv.), alternando sezioni elettriche full band ad altre acustiche, passando dal piano alla chitarra anche in solitaria. Quando la sezione ritmica ingrana la quarta, lei è già seduta sul davanzale e ritorna per un solo istante l’urlatrice di un tempo (e non accadrà spesso). Poi riparte dal suo piccolo piano Yamaha corvino collocato all’estrema destra. Non spacca come Dana Fuchs, né affascina come Natalie Merchant; non è Elin Larsson, né Margo Timmins. Solo per fare degli esempi. Ormai allontanatasi dalle collaborazioni illustri, ma condizionanti assai, vuole e cerca di essere solo B.H.. Nel bene e nel male. Sugar Shack e la sdoganata Close to my Fire dei teutonici Slackwax portano avanti il programma di un’artista che cerca ancora di togliersi di dosso la patina di vedette da localacci di periferia davanti a un pubblico di ubriaconi, ma che merita invece di calcare le assi rispettose dei teatri di pregio per un’audience disposta all’ascolto e alla partecipazione. Talora sinuosa, altre adolescenziale; una pantera con gli occhi da cerbiatta e i pugni incrociati all’altezza del cuore: tra curiosi passettini alla Ginger Rogers in ankle boots a spillo, saltelli frenetici da bimba solo apparentemente capricciosa e quel birignao capace di trasformare i semplici sorrisi di appagamento in involontari lamenti. Solo sette i recuperi dalla sera precedente per un totale di 41 brani eseguiti in 48 ore, 34 dei quali diversi. Questa volta arrivano anche i richiami al soul di Bill Withers (For my Friend) e Bobby ‘Blue’ Bland (I’ll Take Care of You), mentre i saluti di coda dopo la lancinante Bad Woman Blues saranno offerti su una versione spiritata e spirituale di I’d Rather Go Blind di Etta James. Prima seduta e poi persino distesa a bordo palco, distrutta ma appagata, chiudendo con un epilogo viscerale da crocicchio polveroso che la lascia stremata tra le lacrime. Doppio sipario!
Altro volo di rientro e altra misurazione della temperatura dopo l’atterraggio nella laguna veneta mentre, purtroppo, nel giro di pochi giorni la situazione generale precipita. Fine dei giochi per un bel po’! Sopra e sotto il palco. Anche se quest’ultimo fattore, cuore e anima a parte, diventa l’ultimo dei gravi problemi collettivi e senza differenza di idioma. Talvolta, però, anche i ricordi aiutano a supportare meglio persino dolori e incognite. O, almeno, questo è quello che tutti noi vogliamo credere.