foto: Chiara Benelli

In Concert

Little Steven & The Disciples of Soul a Pistoia Blues, 4/07/2017

Little Steven & The Disciples of Soul al Pistoia Blues, 4 luglio 2017

Ricordare il 4 luglio con Little Steven non capita tutti gli anni e così l’America bianca e nera (musicalmente parlando) ha avuto il suo festeggiamento nella stupenda Piazza del Duomo di Pistoia con un concerto, esuberante, caldo, pieno di energia e di suoni. Il merito va al pirata della E Street Band che da un po’ di tempo ha ritrovato la sua giovinezza e ha riportato in scena il sound di Asbury come lo era prima di The River ovvero un fiume in piena di soul, rhythm and blues e rock suonati con l’entusiasmo e la sporcizia di una garage band, a tratti sembrava di essere ad un concerto dei Fleshtones, e con l’enfasi di quelle potenti revue di R&B che andavano di moda tra gli anni cinquanta e i sessanta, l’evocazione degli spettacoli di Johnny Otis, James Brown, Big Joe Turner, Ike and Tina Turner ma con una foga tutta rock n’roll.

Un tripudio di musica afroamericana interpretata con la cruda energia dei musicisti bianchi quando si impossessano di un tale patrimonio, il soul di New York sezionato in tutte le sue derivazioni, da Darlene Love (Among The Believers) a James Brown (Down and Out In New York City) a Phil Spector, il blues trasfigurato da un orchestra di 15 elementi, sintomatiche le versioni di Groovin’ Is Easy degli Electric Flag con dedica dello stesso Miami Steve Van Zandt al grande Michael Bloomfield, di Killing Floor di Howlin’ Wolf, della scoppiettante The Blues Is My Business di Etta James, le ballate al neon di Princess of Little Italy e Out Of Darkness, le rasoiate sul filo del rasoio di Standing In The Line Of Fire di Gary U.S Bonds e Ride The Night Away di Jimmy Barnes. 

E poi pezzi che sono il frutto di un grande rapporto di amicizia e di arte tra Miami Steve Van Zandt e Southside Johnny nel nome di quell’Asbury Sound che ha prodotto gemme indimenticabili come Love On The Wrong Side Of Town, sempre più bella nel suo romanticismo da bassifondi, I Don’t Want To Go Home, struggente e I’m Coming Back, tre episodi che hanno reso il concerto di Pistoia uno di quei momenti di gioia, nostalgia e ricordi che hanno il potere di riscaldare il cuore portandoti appresso un regalo che ti sei meritato per aver continuato a credere, nonostante gli anni e i cambiamenti, a questa musica, a questa America, a questi discepoli.

Concerti così non se ne vedono più, inspiegabile il numero piuttosto ridotto di paganti (circa 1400 ma in linea con le altre date europee) specie se si pensa alla massa enorme che gira attorno al fenomeno Springsteen ed invece snobba il musicista che ha creato nella fase cruciale della carriera del Boss il sound della E Street Band e contribuito ai suoi dischi più importanti, in primis Born To Run. Ma un concerto di Little Steven non fa “figo”, non è l’evento imperdibile a cui bisogna esserci per poi raccontarlo ai colleghi, ai parenti, alle amiche, ai nipoti. Come al solito la musica in Italia conta fino ad un certo punto, si va ai concerti per presenzialismo, non la pensano tutti così, le 1400 anime soul che se ne infischiano delle adunate mediatiche hanno goduto, gioito, ballato, urlato sotto il fiammeggiante ed imponente palco del Pistoia Blues come se fossero ad un nuovo toga party di un blues brother senza età che si fa chiamare Little Steven, ha origini italiane, è divertente, spiritoso e simpatico e anche se vanta una conoscenza enciclopedica del soul e dell’underground è il capobanda di una big band di disadattati, portuali, ladri, residuati, romantici sognatori , che si fanno conoscere come Discepoli del Soul.

Men Without Women, qualcuno come i sassofonista baritono Ed Manion è sopravvissuto alla originale band di quel lontano atto di liberazione maschile rock datato 1982, ricordato con ben quattro tracce: Princess of Little Italy, Angel Eyes, Forever e Until The Good Is Gone. Mentre dagli album più terzomondisti di Little Steven sono arrivati I’m A Patriot, Out of Darkness, Among The Believers, Bitterfruit. Ma è il recente splendido e corale Soulfire ad aver dato sangue, sudore e anima allo show con la sua prorompente carica rock-soul, lo smargiasso frastuono (nota negativa dell’esibizione è stato il volume esagerato imposto dal fonico di Little Steven) di una sezione fiati torrenziale innestata sul veemente suono delle chitarre (nella parte finale del concerto si è aggiunto anche Rick Nielsen dei Cheap Trick), su un basso un po’ troppo sopra le righe, sulle tastiere del mitico Lowell Levinger detto Banana, ex pianista degli Youngbloods che nella cover di Walking By Myself ha imbracciato il mandolino.

A rendere ancora più debordante la revue tre coriste nere in abito con spacco generoso si davano un gran da fare con cori e movenze nell’inscenare quella orgiastica atmosfera di profano soul-gospel che mi ha fatto venire in mente le Ikettes. Ad eccezione di queste, vestite di bianco, gli altri dodici si sono presentati in rigoroso total black compreso il fantastico folletto direttore d’orchestra, naturalmente con bandana, braccialetti, lunga palandrana all’inizio e immancabile Fender.

Due ore e trenta di concerto, un Little Steven coinvolto, esuberante e generoso, una band che è una festa, tre coriste che hanno smentito i men without women mettendo il peperoncino allo show, una Piazza che è un regalo della storia e dell’architettura italiana, un pubblico caldo e partecipe, una musica che è gioia e divertimento, beh un quattro luglio così me lo ricorderò per parecchio. Anche se non sono americano.

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