Terraforma è un festival di musica elettronica, sperimentazione artistica e sostenibilità ambientale (per usare le loro stesse parole) giunto quest’anno alla sua sesta edizione, svoltasi come sempre nel bosco di Villa Arconati, a Bollate (MI). Location altamente suggestiva per una manifestazione a cui avevo provato ad andare più volte in passato senza esserci, per un motivo o per un altro, mai riuscito. Quest’anno ce l’ho fatta, almeno per quello che riguarda la prima delle tre serate in programma, complice anche la presenza di un nome importante quale quello di Laurie Anderson in line up.
Qualche rapida notazione sull’impressione che mi ha fatto il festival nel suo impianto generale. Assolutamente splendida per il sottoscritto la location, con i vari palchi sparpagliati all’interno del bosco della villa, in linea di massima dalle dimensioni contenute e dalle foggie inusuali (a curare l’aspetto architettonico del tutto sono stati gli architetti Matteo Petrucci e Sofia Coutsoucos, con lo studio AOUMM e l’ausilio degli studenti del Politecnico di Milano, mentre la bellissima installazione Kiosque à Musique, un mix tra una camera d’eco volta ad amplificare i suoni della natura e sede per presentare i lavori di artisti contemporanei, ha preso forma ispirandosi ai vecchi caroselli presenti nei giardini botanici). Il festival è responsabile della riqualificazione ambientale del bosco, realizzata attraverso la sua bonifica e valorizzazione, oltre che con la realizzazione di un labirinto di siepi (oltre cinquecento esemplari di carpino sono stati piantati lungo cinque cerchi concentrici che conducono al centro), messo a punto seguendo le indicazioni del modello originale di Marc’Antonio Del Re, risalente al 1743. Tutto davvero molto bello!
Ho trovato un po’ più carenti, invece, altri aspetti organizzativi, soprattutto in rapporto ai festival stranieri, con cui chiaramente Terraforma si confronta, anche grazie alla nutrita presenza di spettatori in arrivo dall’estero. Senz’altro positiva l’eliminazione dei bicchieri di plastica in favore di quelli riutilizzabili (caparra di 2€), con anche delle posizioni atte al refill dell’acqua gratuito, ma pochi i bar dove prendere da bere e pochissimi gli stand nel food court, con l’ovvia conclusione che c’erano sempre delle discrete code da fare per tutto. A questo aggiungiamo che per consumare c’era da caricare il denaro sul chip presente sul braccialetto che veniva consegnato all’ingresso, cosa che era possibile fare (tra l’altro ricorrendo unicamente a ricariche con un intervallo da 5€) smazzandosi ulteriori altre, lunghissime code presso gli unici due stand a tal scopo adibiti (resta inoltre da capire come questo sistema definito cashless possa risultare utile non solo ai fruitori, ma pure all’ambiente). Da quanto mi dicono, questi problemi ci sono stati in realtà soltanto la prima sera, sostanzialmente a causa di un allineamento dei sistemi, mentre nelle giornate successive, con anche un pubblico più numeroso, sono stati quasi del tutto azzerati. Ne prendo atto e se così è stato senz’altro sono contento.
Detto questo, passiamo alla musica presentata durante questa serata. Ad aprire il tutto, con una mezz’oretta di ritardo sul programma, è stata Caterina Barbieri, produttrice e compositrice elettronica, italiana ma residente a Berlino, che di recente avevo già visto anche al Primavera Sound. Sostanzialmente identica la sua performance, basata sull’ultimo, ottimo album Ecstatic Computation, uscito per la prestigiosa Editions Mego. La sue è musica che affonda a piene mani nella storia della musica elettronica e non, riverniciando all’oggi la lezione del Minimalismo così come di certe branchie dell’ipnosi krauta più spaziale, facendo risuonare pulsanti arpeggi di synth modulari e filamentosi droni intessuti di sognante malinconia psichedelica. Forse non c’è nulla di veramente nuovo nella sua musica, ma la gestione dei suoni, il fascino lisergico delle intersezioni melodiche e l’intelligenza ricombinatoria del tutto sono parsi nuovamente di grande attrattiva.
Sicuramente, però, l’appuntamento cardine della serata era quello con lo show di Laurie Anderson. Dico show a ragion veduta, perché quello della sempre affascinante artista e sperimentatrice newyorkese non è un vero concerto, non nel senso classico del termine quantomeno, bensì uno spettacolo dove far confluire temi e idee esposti attraverso recitativi e racconti (ma che bella voce ha? e che dizione!), fusi a scampoli d’improvvisazione musicale e l’utilizzo di video. Accompagnata da un violoncellista e lei stessa al violino elettrico e agli electronics, la Anderson ha imbastito il suo spettacolo su una serie di temi che evidentemente le stanno a cuore: l’ambiente, il riflusso politico con la sua deriva destrorsa e populista, il modo in cui provare a reggere alla deriva in cui il pianeta e le nostre vite, a più livelli, sembrano andare. È stata un’ora di spettacolo poco accomodante forse, dove inoltre era fondamentale la conoscenza dell’inglese, molto difficile da raccontare senza farlo apparire, in fondo, banale, visto che molta della sua forza si è basato sul carisma, l’autorevolezza e, infine, persino il naturale candore della sua autrice. Da ricordare con particolare emozione, però, ci sono almeno tre momenti altamente simbolici: il primo quello in cui ha ricordato la mattina seguente all’elezione di Trump, dove con sgomento e smarrimento si chiedeva come ciò fosse potuto accadere e perché nessuno stesse facendo nulla, prima di trovare su internet un twit di Yoko Ono che urlava per un minuto intero; a noi qui, invitandoci a pensare a tutto ciò che ci fa star male o ci disturba, ci ha fatto gridare per soli dieci secondi, ma indubbiamente è stato catartico. Il secondo, commuovente, è stato quando il grande Lou Reed è apparso in una composizione con la sua voce e in un fantasmatico video, testimonianza di un amore profondo che Laurie si porta ancora dentro. Infine, il terzo, quando ha elogiato la meditazione e il Tai Chi e, con immensa grazia e eleganza, ne ha messo in scena, come in una danza, i movimenti. Chi si apettava un concerto classico – magari con O Superman in scaletta – magari sarà rimasto un po’ deluso. Io, personalmente, l’ho trovata una esibizione autenticamente emozionante nella sua limpidezza.
Dopodiché il festival entrava nella sua dimensione più notturna e platealmente elettronica. Io sono rimasto a vedere giusto un paio di cose. Dapprima Renick Bell col suo progetto Algorave, musica dance spezzatissima, urticante, francamente difficile sia da ballare che da ascoltare, generata da una serie di algoritmi che utilizzano live coding e mapping, con tanto di proiezione dei codici in tempo reale sul luogo della performance. Non è certo roba che frequento e darne un vero giudizio mi viene difficile. Sostanzialmente l’ho trovata roba inutilmente ostica e con zero feeling. Una palla astrale, insomma.
Molto meglio Monolake, progetto del producer Robert Henke, pare il principale sviluppatore del celebre software Ableton Live, che all’interno del labirinto, con le sue casse messe tutte intorno in modo da sfruttare al massimo la spazializzazione del suono (effetto da provare, assolutamente sorprendente), ha dato vita a un set di techno tagliente e potente, di grande raffinatezza produttiva e magistralmente calibrata nei suoi momenti di stasi, così come nei rilasci ipnotici ed edonistici. Ad accrescere il potere suggestivo del tutto, i fasci di luci tra le siepi a trasformare il pubblico in una scenografia ondeggiante, sormontata dall’inscalfibile e ieratica presenza degli alberi come spettatori muti. Anche qui, non proprio la mia musica, ma non mi è dispiaciuto affatto!
La notte continuava poi con una altro paio di dj set, ma per me andava ormai bene così. That’s all, folks!