Un pubblico appassionato ed eterogeneo quello che ha riempito, contando buoni numeri, il Fabrique sabato sera, nonostante l’organizzazione poco fluida all’ingresso che ha causato soste inspiegabili sotto la pioggia milanese. La lenta coda già poneva in uno stato d’animo contrario, meno male che la musica poi tutto risolve, in un’overdose fatta di scenografie, volti sorridenti, gente di ogni età e birra rovesciata che si appiccica alla suola delle scarpe… qualunque sia lo stato d’animo della giornata appena trascorsa: odiosa, amorevole o tormentata.
Si entra a spettacolo già cominciato, ahimè, prendendo subito coscienza che quei Cani da Pastore stavano sbranando il palco meneghino proiettati in diretta da un profondo Sud americano, a dispetto della provenienza canadese impronunciabile: Saskatoon, Saskatchewan. Una laboriosa band roots rock con spiccate inclinazioni Southern, intenta a congegnare un suono urgente, energico, fatto di chitarre sincrone ed assoli libertari, di un tono d’insieme alchemico e d’impatto, pur senza annullare o invadere i preziosi spazi dedicati alle armonie.
Sapendo bene come radunare il resto della razza umana sciolta in questi tempi, The Sheepdogs conquistano una platea affascinata, oltre che dal loro modo di suonare, dalle barbe e dai baffoni, dalle zazzere e dai cappelli, le camice a quadri e le atmosfere Seventies che incorniciano l’intera scena. Un set vitale e coinvolgente il loro, che senza soluzione di continuità amalgama alcuni vecchi pezzi e le canzoni più recenti, che trasporta dall’hard rock al blues e dal Southern alla West Coast, ritornando al punto di partenza in una manciata di minuti.
Ewan Currie ha una voce dall’effetto morbido, calmante, un’intonazione che regala meraviglia pur non esibendo acrobazie vocali, e il fratello Shamus si destreggia onorevolmente fra il suo posto d’ordinanza, piano ed Hammond, e le corde di una Gibson SG, quando l’intera sala impazzisce per la provocante indole dell’ex enfant prodige Ricky Paquette che di chiatarre invece ne ha una scorta.
Canada e Georgia: terre dove i pedigree di fenotipo musicale vengon tramandati di generazione in generazione. Un’accoppiata in giro per l’Europa dai contenuti artistici oltremodo interessanti. Un’apparizione “troppo breve” quella canadese, ma che lascia i giusti tempi al cambio set e all’introduzione delle star della serata, i Larkin Poe, che arrivano in Italia con il tour legato all’ultimo Blood Harmony, album dello scorso anno, a due distanze da Self Made Man ed a quattro da Venom & Faith,il successoche raggiunse il #1 della Billboard Blues Chart sfiorando pure un Grammy Award.
Ebbi modo di vedere le ragazze quattro anni orsono, sempre qui a Milano, ma seppur legate ancora a un pubblico di nicchia, già lasciavano il presagio di una parabola in verticale, con l’irriverenza e l’attitudine di chi vuole divorare il mondo. Oggi, le sorelle Lowell son cresciute, professionalmente e musicalmente, non dimenticandosi dell’insolenza rock’n’roll e delle tradizioni blues, ma muovendosi furbescamente incontro a seduzioni pop che a quanto pare, sembrano la formula azzeccata per avvicinare personaggi di estrazione varia.
Alla pari di due esperte veterane hanno tenuto in scacco il loro pubblico, complice la dominante aurea femminile che da sempre vuole infinitamente affascinante la figura della donna-rocker. “Di bianco vestite” indossano alla perfezione quella mescolata fantasia di purezza e trasgressione che a Rebecca e Megan lascia addosso un invidiabile carisma. Con il loro sound orgogliosamente personale, tutto melodie potenti, slide e riff magnetici che risuonano negli ampli, si concedono una parentesi in acustico, saliscendi di proposte un po’ ad effetto e siparietti più convenzionali, ma che lasciano il loro timbro.
La marcata impronta di un groove così robusto non può che avere una sezione ritmica ad alte frequenze, tra profondi echi di un incessante basso e una batteria secca e precisa che hanno imposto il loro spazio durante la serata. Rebecca ha una voce ammaliante (che ricorda Sheril Crow), senza esagerazioni di alcun genere, e distribuisce aggressive schitarrate. Estroversa, intrigante e dalla presenza scenica notevole, manda in giuggiole soprattutto la platea maschile, mentre Megan pensa ai fatti suoi alimentando una lapsteel vibrante e riportando in vita i fantasmi intorno al Delta.
Pochi assaggi dal passato e una netta preferenza per il repertorio dell’ultimo disco, ma ci scappa il solito gradito omaggio alla leggenda di Son House, un’inserto sulle note di una Jessica Allmaniana in versione femminile, quella Back Down South partorita insieme a Tyler Bryant, e le citazioni hard di Wanted Woman degli AC DC, che accompagnano verso un finale in crescendo rock vaneggiando danze ipnotiche su Holy Ghost Fire e scatenando gli inferi del Sud con Bolt Cutters & The Family Name. Un encore dedicato al buon vecchio Country Hill, Deep Stays Down, e il saluto di quella che si è rivelata essere una scelta più che vincente. Da produzione ancora indipendente, il suono dei Larkin Poe è ben in grado di ondeggiare attraverso i confini generazionali, forse proprio grazie alle astuzie fra modernità e tradizione, o forse per l’inconteniile entusiasmo che le due ragazze riescono a trasmettere.
Note elettriche vibranti in una cavalcata poderosa blues e rock Ela gente divertita, seppur dentro un’umida serata milanese, han restituito un po’ di fede a questi tempi ancora imbrattati nella confusione. Sempre un plauso ai booking e ai promoter che anche qui in Italia non si affidano ai facili successi, ma si prendono la briga di considerare, per quello che è possibile, il valore artistico dei musicisti. Antenne tese, quindi, chissà mai che qualche cosa di nuovamente fresco e interessante sia in arrivo.