ALESSANDRO PORTELLI
Badlands – Springsteen E L’America: Il Lavoro E I Sogni
Donzelli Editore, pp.218, € 25
Quando ero adolescente, ho iniziato a leggere il quotidiano Il Manifesto perché ci scriveva Alessandro Portelli e ho iniziato a leggere Portelli perché, spesso e volentieri, si occupava di Bruce Springsteen, in particolare, e di musica tradizionale americana in genere. I casi miei non contano nulla, è vero, ma il dato di uno studioso di sinistra intento a occuparsi, da sinistra, di una materia – il rock a stelle e strisce – cui la pigrizia di certa critica ha da sempre attribuito un carattere intrinsecamente conservatore, è quello che sta alla base dell’intero Badlands, senz’altro il più compiuto e il più affettuoso, nonché il più rigoroso sul piano scientifico, tra i saggi e gli articoli dedicati da Portelli al suo più grande amore in campo musicale, appunto Springsteen, da lui inquadrato come figlio e continuatore non solo dell’opera (ideale) di certi scrittori del primo ‘900 americano, bensì come «quadratura del cerchio, che riportava a casa tutto quello che avevo ascoltato fino allora, sia il rock and roll sia la musica popolare e la canzone di protesta, e le collocava in una storia condivisa».
Nella prospettiva di Portelli, professore ordinario di letteratura anglo-americana all’Università La Sapienza di Roma, esperto di cultura popolare e storia orale americana e non solo, consigliere comunale nelle fila di Rifondazione Comunista, autore di numerosi trattati su esperienze antagoniste e movimenti d’opposizione, il lavoro di Springsteen può essere analizzato per intero, essendone nella sua interezza attraversato, alla luce di alcuni temi preponderanti: il lavoro, i rapporti di classe, la mobilità sociale conseguita o negata e, di riflesso, l’impatto di queste tematiche sull’identità dei cittadini e sulla loro relazione con la promessa di prosperità alla base del cosiddetto «sogno americano». Lo scrupolo analitico di Portelli, e la voluta dimensione univoca del suo esame (incentrato, è bene ribadirlo, solo e soltanto sugli assunti ricorrenti nell’apparato lirico del musicista e sulle modalità da lui impiegate per svilupparli, metterli in discussione o rinnovarli), perimetrano anche i (pochi) difetti dell’operazione e i suoi (moltissimi) pregi. I primi riguardano più che altro la cospicua quantità di refusi, alcuni ripetuti (per esempio il fatto di citare per tutto il libro la Spare Parts di Tunnel Of Love [1987] come Spare Parts And Broken Hearts, quisquilie da maniaci) e altri perfino divertenti (come quando, nelle dettagliatissime note, si legge che certi video su YouTube sarebbero stati visti dall’autore nel 1915, involontariamente predatando di quasi un secolo la nascita dell’omonima piattaforma), ma tutti, comunque, trascurabili.
Il metodo-Portelli, inoltre, lascia risuonare qualche scricchiolio allorché pretende di restituire l’essenza dell’immaginario springsteeniano ragionando su categorie – classe operaia, giustizia economica, diritti civili, militanza progressista – che da noi, in Italia e in Europa, hanno un significato preciso, mentre ne hanno uno forse non diverso, eppure senz’altro più opaco e sfumato, al di là dell’oceano. Da questa impostazione, nella quale le posizioni anti-Bush dello Springsteen del 2004 (per dire) sono la logica conseguenza di una «mobilitazione per un’altra America» riconducibile a una sinistra tout-court, derivano la sopravvalutazione, soprattutto ideologica, delle variopinte kermesse musicali a sostegno di Barack Obama, e la sottovalutazione di un certo populismo anarcoide, ferocemente anti-stato e anti-tasse, che nelle sue espressioni più deliranti arriva agli ululati isolazionisti del Tea Party e in quelle più temperate assume, tra le tante, le opinioni del sociologo quacchero Staughton Lynd, qui citato (nel capitolo dedicato alle acciaierie dell’Ohio) come fautore dell’«organizzazione sindacale» dei dipendenti carcerari.
Portelli conosce Lynd molto meglio di me (ne parlava già in America, Dopo, uscito sempre per Donzelli nel 2003) e quindi sa come la sua idea di sindacato non sia rivendicativa ma conservativa, in qualche modo legata alla gerarchia valoriale delle small-town americane; se ne omette la complessità di pensiero è perché, in un’indagine di questo tipo, interessata a rappresentare Springsteen quale risultato esclusivo della propria volontà individuale e non come risposta a tutta una serie di condizionamenti esterni (di volta in volta ascrivibili anche alla necessità di riposizionarsi sul mercato e mantenere in funzione una macchina spettacolare dal costo esorbitante), solo così è possibile arrivare a leggere in, diciamo, Queen Of The Supermarket (da Working On A Dream [2009]), la coerente prosecuzione della galleria di lavoratrici già ritratta nelle varie Car Wash, Mary Queen Of Arkansas o Sherry Darling («il terziario sottoqualificato di provincia e di periferia, senza traccia di individualità o ispirazione») anziché il frutto, infinitamente meno poetico e urgente di un tempo, dell’eterno ritorno a temi, figure retoriche e personaggi diventati ormai un marchio di fabbrica, centinaia di volte già sfruttati e perciò logori, usurati. Si tratta però di un (veniale) peccato d’affetto, generato dalla voglia di prendere sul serio, riconoscendogli organicità e dignità teorica, l’intero corpus delle opere springsteeniane, peraltro affrontato da Portelli intrecciando la disciplina accademica (per niente ammuffita) e il coinvolgimento personale.
È raro, in modo particolare nella saggistica su Springsteen, spesso viziata da tentazioni agiografiche, incontrare una ricerca così efficace nel sovrapporre la storia culturale di un artista alle contraddizioni sviluppatesi in seno all’America degli ultimi decenni: Portelli lo fa sottraendo le canzoni dell’uomo del New Jersey alla pura dimensione del consumo, e alla presa tentacolare del mainstream, per restituirle all’alveo della cultura proletaria da cui provengono. E ancora più raro, da parte di un accademico (in ogni caso benedetto dal dono dell’immediatezza), è il fatto di dimostrarsi in grado di maneggiare una simile mole di riferimenti e paragoni pescati nel serbatoio del folk, del country e del rock statunitense (l’indice dei titoli di album e brani altrui citati nel testo occupa sei pagine fitte di nomi, da Roy Acuff a Dwight Yoakam) per costruire un “racconto” dove la colonna sonora di un paese, e nello specifico quella delle sue fasce meno abbienti, riesce a illustrarne i principali nodi evolutivi, i cambiamenti, le stagioni, i funerali e, non ultimo, il ricambio generazionale.
Bruce Springsteen – Portelli ne è consapevole – non è un rivoluzionario, né un oracolo politico. Ma le sue strofe contengono un’utopia, «la corsa sulla thunder road a studiare i cancelli della terra promessa» e il senso di comunità necessario «alla lotta per inventarla», il cui significato esprime la fusione di altre e diverse esperienze, fino al punto di trasformare una canzone, un verso o una semplice parola (fate caso a quanto spazio sia riservato da Portelli all’analisi di singoli avverbi, locuzioni o aggettivi in apparenza casuali) in una forza indomabile di socialità e aggregazione. Lo studio, l’amore e cultura hanno bisogno di custodi, e Badlands di Alessandro Portelli è, per quanto mi riguarda, uno dei libri più belli e sentiti, in mezzo ai tanti (troppi) inutili, sull’epopea di un musicista – il più amato da chi vi scrive – come pochi in grado di portarci a riflettere su eredità culturali e democrazia. «Quando uscì We Shall Overcome: The Seeger Sessions (2006), in cui Bruce Springsteen rende omaggio a Pete Seeger e ne riprende il repertorio, è stato come se tutto si ricomponesse – Pete Seeger, Woody Guthrie, Hank Williams, Elvis Presley, John Steinbeck, John Ford e Bruce Springsteen. Ebbi l’impressione di non avere del tutto sbagliato vita», scrive Portelli nell’introduzione. È grazie a libri come questo se la stessa impressione, tutto sommato, raggiunge ogni tanto anche noi.