Serata di caldo torrido e implacabile quella in cui Kurt Vile e i suoi Violators sono tornati a calcare un palco a Milano, ad un paio d’anni circa dall’ultima volta. Temperatura bollente accresciuta da uno show elettrico e molto rock, probabilmente il più convincente tra quelli visti dal sottoscritto del rocker di Philadelphia. Intanto dall’ultima volta pare che il pubblico sia raddoppiato o quasi e, vivaddio, una volta tanto si può parlare di autentica folla per un concerto di un cantautore tutto sommato classicamente rock. Ma a essere cambiato è anche l’atteggiamento dello stesso Vile, sicuramente più confidente nei confronti dello stare on stage, più sicuro di sé e mai parso così a suo agio come stavolta.
Al Magnolia ci arrivo quando Jorge Elbrecht ha già suonato, quindi della sua prestazione non posso proprio dirvi nulla. Con precisione svizzera alle 22 in punto Vile e compagni salgono sul palco. Con lui a voce, chitarre acustiche, elettriche e banjo, la formazione dei Violators è la stessa di quella degli ultimi tour, con i due polistrumentisti Jesse Trbovich e Rob Laakso a dividersi tra chitarre, basso e tastiere e il batterista Kyle Spence a prodigarsi dietro ai tamburi.
Chi conosce la sua musica lo sa bene, non è nella varietà che risiede la sua dote maggiore, bensì esattamente nel suo opposto. Così come nei dischi, le sue canzoni paiono srotolarsi come un unico, incessante flusso, come un blocco unitario che si muove per minime variazioni. Con ciò non si vuol dire che sia un songwriter limitato, ma solo sottolineare che proprio in questa ripetitività mantrica sta la sua più grossa originalità. Le sue melodie memori dell’estetica slacker, inframmezzate da qualche urlo icasticamente rock’n’roll, perfettamente si calano nelle trame elettroacustiche delle sue canzoni, il cui suono, quantomento rispetto alle volte precedenti, è stato stavolta più pieno e solido, ancor più chitarristico nell’impianto generale e ben sorretto da un drumming preciso e potente.
L’attacco è con Loading Zones, la vecchia Jesus Forever e Bassackwards, ma il primo vero colpo da maestro arriva quando Kurt imbraccia il banjo e ci offre una I’m An Outlaw da manuale, con lo strumento a quattro corde a dettare il passo di un pezzo che si stende ipnotico scontornato dalle chitarre e da un ritmo inesorabile, elementi che la tengono mirabilmente in bilico tra tradizione e modernità. Per un’ora e mezza la scaletta continua ad oscillare tra pezzi nuovissimi e altri tratti dai dischi precedenti – soprattutto da Smoke Ring For My Halo e B’lieve I’m Going Down – con la consueta parentesi in solitaria nel mezzo e con un pugno di brani autenticamente straordinari piazzati soprattutto nella seconda parte e nel bis. Memorabile ad esempio una lunga e visionaria Wakin On A Pretty Day, con Vile all’acustica, cosa che però non gli ha impedito di lanciarsi in improvvisi assoli chitarristici eseguiti facendo ricorso al distorsore. Ma bellissime anche Wild Imagination, una Mutinies in larga parte in forma di ballata, prima di accendersi in una coda elettrica super satura nel finale o una Pretty Pimpin accolta come sempre da un’ovazione e con le chiare stimmate dell’hit personale.
Belle canzoni, bel sound, un impianto audio all’altezza, un pubblico di tutte le età che ha fatto sentire il proprio entusiasmo alla band sul palco, caldo a parte è stata davvero una bella serata. Come si diceva sopra, Vile è cresciuto parecchio e il suo essere uno dei rocker più coccolati della sua generazione è un titolo meritato e per nulla usurpato.