È con piacere che arrivo all’Alcatraz di Milano trovandolo, sia pur diviso a metà, stipato di gente. Non sapevo bene cosa aspettarmi, perché se è vero che i Kula Shaker, da quando sono tornati nel 2007 con l’ottimo Strangefolk, hanno iniziato a vivere una seconda giovinezza, è anche vero che il loro momento di maggior gloria lo ebbero nella seconda metà degli anni ’90, quando esordirono col celeberrimo K, disco che, finché durò, li rese star del Britpop, di cui loro ne davano una versione neo-psichedelica e tinta di suggestioni indianeggianti.
Ora sono in giro a presentare il nuovissimo K 2.0 e fa un po’ specie che su una ventina di pezzi e all’incirca un’ora e mezza di show, da quest’album abbiano tratto solo il singolo Infinite Sun e Mountain Lifter, tra l’altro entrambe bellissime e tra i momenti più vibranti del concerto. In realtà un po’ tutta la fase post reunion è stata poco frequentata, visto che a parte i due brani citati, Strangefolk non è stato neppure sfiorato e pure l’ottimo Pilgrim’s Progress è stato ricordato con solo due brani, la bella ballata Ophelia e Peter Pan R.I.P.. Difficile dire se questo sia un modo per andare sul sicuro, compiacendo il proprio pubblico della prima ora – e difatti non si può dire che mancassero le teste canute tra il pubblico – oppure (ma mi parrebbe assurdo) espressione di una minor convinzione nei confronti delle nuove canzoni.
Come che sia, il grosso della scaletta ha lasciato ampio spazio ai brani di K e Peasents, Pigs & Astronaut, per la prevedibile gioia di chi era lì ovviamente per sentire i loro hit più conosciuti. Profumo d’incenso nell’aria, mentre le casse mandano a tutto volume un intro misticheggiante, i quattro salgono sul palco e attaccano subito con una chitarristica Sound Of Drums, seguita da quella Gokula che all’epoca fece parlare di sé perché, per la prima volta, veniva accordato da un ex Beatles (George Harrison, in questo caso) il permesso di usare un campione estratto da una propria canzone (nella fattispecie, un riff da Ski-ing).
Il leader, cantante e chitarrista Crispian Mills sa come tenere il palco, si scatena in riff ed assoli sulla sua sei corde elettrica, dialoga perfettamente con la precisa sezione ritmica di Alonza Bevan (basso) e Paul Winterhart (batteria) e, soprattutto, con l’organo e le tastiere di Harry Broadbent, col quale crea fantastici impasti di sapore vintage. Come cantante è buono ma nulla più, ma alla bisogna, ad esempio durante la riuscita cover di Hurry On Sundown degli Hawkwind, Mills ci dà dentro anche con l’armonica, convincendo a 360°.
Il resto lo fanno le canzoni, un turbinio di rock britannico, psichedelia, influenze folk, sfumature indianeggianti, il tutto centrifugato in un sound che non manca di avere sempre un appeal pop. I pezzi non sono mai radicalmente diversi dalle loro versioni in studio – e questo è un elemento che, per una band del genere, forse gli impedisce di arrivare a sorprendere fino in fondo – ma il tutto viene esposto con una tale energia contagiosa che alla fine ci si passa sopra. E del resto, come non abbandonarsi all’omaggio al grande Jerry Garcia di Grateful When You’re Dead/Jerry Was There, mentre il suo faccione appare sui visual (sempre un po’ al confine col kitsch, ma efficaci) alle loro spalle; come non scatenarsi con la loro cover di Hush (Joe South, Deep Purple); come non rimembrare certo sound anni ’90 con pezzi iper potenti come Hey Dude; come non perdersi tra le note di hit ancora oggi fantastici come Tattva o Govinda, sulle cui note lisergiche la band ci saluta? Non si può, infatti! Energia a profusione e divertimento, per una serata all’insegna del rock.