In quanto appassionati di musica sarà capitato anche a voi di trovare una band immediatamente amata fin dalla prima nota ascoltata, considerandola completamente aderente ai vostri gusti musicali più profondi. A me è successo diverse volte e ogni volta è stata una specie di epifania. Di recente mi è capitato con gli inglesi, di Liverpool, King Hannah, già autori l’anno scorso di un sensazionale EP, in realtà lungo quasi quanto un album, che mi aveva fatto drizzare non poco le orecchie, bissato a inizio 2022 da un esordio in lungo vero e proprio, che ha consolidato tutte le belle sensazioni espresse in precedenza.
Sia l’EP Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine, che l’album I’m Not Sorry, I Was Just Being Me sono lavori che mostrano l’enorme talento di una band che, se non si perderà per strada (e al momento non ci sono neppure flebili segnali che ciò possa accadere), è destinata a lasciare un segno profondo nel rock contemporaneo. Non che s’inventino nulla Hannah Merrick e Craig Whittle, ma i riferimenti sono quelli giusti (a grandi linee potremmo citare il folk-rock psichedelico dei Mazzy Star, il trip-hop ombroso e intinto nel blues dei Portishead, le tirate elettriche del Neil Young a capo dei Crazy Horse) e hanno dalla loro elementi fondamentali per imporsi nel panorama musicale attuale ovvero: le canzoni, una cantante dalla voce incredibilmente affascinante, un suono spettacolare, magicamente in equilibrio tra perizia tecnica e capacità di creare atmosfere evocative in cui letteralmente perdersi.
Qualche mese fa avevo già avuto l’occasione di vedere un loro set al festival Le Guess Who? di Utrecht e già allora erano stati brividi. In questo passaggio all’Arci Bellezza di Milano, però, se possibile sono riusciti a fare anche meglio. Perso per strada il tastierista che li accompagnava in quell’occasione, stavolta si sono presentati in classico assetto rock, due chitarre, basso, batteria, e grazie a questa formazione asciutta ed essenziale sono riusciti a dar forma alle loro canzoni in maniera ancora più convincente, visto che dal vivo letteralmente esplodono.
Le striature blues e narcotiche delle loro ballate disossate rimangono assolute protagoniste, ma in sede live i decibel aumentano notevolmente, il tiro ritmico ed elettrico sale d’intensità e la loro musica diventa decisamente più fragorosa e deflagrante. La voce di Hannah è viatico per il paradiso, la porta attraverso cui penetrare sensazioni oniriche e da sogno, rafforzate da una presenza scenica per nulla artefatta, quanto piuttosto autenticamente e naturalmente carismatica e magnetica. Ha una voce da brividi Hannah, di quelle che ti guidano sui sentieri di blues minimali e notturni, che potrebbero anche rimanere così, ossuti e scarnificati come rami spogli, ma che nelle canzoni dei King Hannah invece esplodono in visionarie costruzioni elettriche e si dilungano in cavalcate chitarristiche davvero degne dei Crazy Horse.
Perché se la voce di Hanna spedisce in cielo, la chitarra fumigante di Craig riporta tutto a terra attraverso un sound Fender assolutamente spettacolare e tramite un lirismo elettrico che non conosce impedimenti e che quando sembra andare alla deriva si vorrebbe non conoscesse neppure argini. Dal vivo la dicotomia complementare e l’intesa sinergica fra i due va un passo oltre la bellezza dei pezzi così come li conosciamo dai dischi, facendosi fiume torrenziale e portando alla pura esaltazione.
La scaletta è stata quasi tutta basata sui pezzi dell’esordio, a partire dalla bellissima e sulfurea A Well-Made Woman con cui hanno aperto, ed è parsa perfettamente giostrata nel suo svolgersi, giocando sulle variazioni come già accadeva sull’album. Azzeccatissima, ad esempio, la scelta di piazzare già come secondo pezzo la loro fumigante cover di State Trooper di Bruce Springsteen e di lasciare al finale alcuni dei loro brani migliori e che hanno già fatto in tempo a sedimentarsi nel cuore degli ascoltatori quali le ormai classiche Crème Brûlée e Meal Deal (dall’EP) o come l’innodica It’s Me And You, Kid che, con la sua melodia corale, lascia nell’aria la limpida sensazione di aver assistito a un concerto clamoroso, senza momenti di stanca in nessuna sua parte, e che già aveva visto picchi notevoli con una The Moods That I Get In notevolmente irrobustita, nella stilizzazione sonora del duetto I’m Not Sorry, I Was Just Being Me o nel rock affilato Go-Kart Kid.
Credo che le 250 persone che hanno deciso di venire qui, preferendogli altri appuntamenti in una serata milanese ricca di alternative, non se li dimenticheranno tanto facilmente. E io con loro. Grandissima (live) band!