La cornice è quella di Un’Altro Festival che, al contrario del periodo pre-covid, a un festival come comunemente inteso ormai somiglia pochissimo, essendo di fatto un cappello sotto il quale presentare dei concerti, quest’anno essenzialmente due e ben distanziati, quello di Yellow Days il prossimo 12 luglio e quello dei King Gizzard & The Lizard Wizard andato in scena lo scorso 4 giugno.
La location è più o meno sempre rimasta la stessa, quella storica del Circolo Magnolia di Segrate, chiaramente nella sua versione estiva con palco all’aperto, e così è anche quest’anno. La band australiana era già stata in Italia all’incirca un annetto fa, ma ha ormai un tale zoccolo duro di fan che probabilmente potrebbe tornare ogni mese e vedere lo stesso i propri concerti affollati.
A rendere particolarmente interessante, quando non palesemente imperdibile questa serata, però, era anche l’apertura affidata a un’altra australiana, ovvero la cantautrice Grace Cummings. Io avevo già avuto modo di vederla un paio d’anni fa all’End Of The Road e il suo era stato uno show sorprendente, rugginoso e potente, particolarmente stupefacente anche perché all’epoca aveva pubblicato due (bellissimi) dischi sostanzialmente acustici, cosa che non mi aveva preparato al vigore del suo show. Il nuovo Ramona, prodotto da Jonathan Wilson, ha sonorità più piene e arrangiamenti più ricchi ed è sulle sue canzoni che soprattutto si affida l’ora di performance di Grace, qui accompagnata da tre musicisti impegnati a basso, batteria, chitarra elettrica e piano elettrico, con la stessa Cummings ad alternarsi agli ultimi due.
Dotata di una voce soul blues bassa e roca, la singer songwriter australiana è una forza della natura, autrice di canzoni dal piglio classico che lasciano il segno. Dal vivo il sound è più ruspante e meno elegante che su album. Il settaggio dei suoni non è proprio il massimo, non arrivano con la potenza che gli competerebbe, ma è la cosa un po’ tipica che soffrono le aperture, oltre al fatto che quando inizia alle 20 in punto ancora non è molto il pubblico davanti al palco. Lei, però, che dichiara inoltre di essere mezza italiana, è entusiasta e ci mette grande grinta e quella voce che ti entra dentro. Le nuove canzoni funzionano benissimo anche in sede live – menzione speciale per Everybody’s Somebody – e i ripescaggi da Storm Queen, tra i quali proprio la titletrack, capaci di lasciare il segno. Nel secondo fra questi, la stupenda Heaven, i King Gizzard & The Lizard Wizard al completo salgono sul palco e ne viene fuori una versione potentissima e a dire il vero un po’ caotica, senz’altro però divertente, considerando poi che, a loro dire, non era manco stata provata. Bravissima, si spera di poterla vedere presto in un concerto tutto suo e in una dimensione più consona.
Per quello che riguarda i King Gizzard, poco ci sarebbe da aggiungere a quanto detto in passato: se l’incredibile prolificità e la tendenza ad abbracciare con dissennata facilità qualsiasi genere musicale gli venga in mente, a oggi gli ha impedito di pubblicare un album che possa essere definito un capolavoro, è indubbio che dal vivo siano una delle cose migliori in cui possiate imbattervi, una macchina da guerra letteralmente inarrestabile e, per i motivi di cui sopra, anche discretamente imprevedibile.
In fondo sono dei cazzoni che si divertono un mondo a suonare e a stare su un palco, ma se lo sono, sono dei cazzoni che suonano da paura. La scaletta di stasera, dichiarano, è stata messa a punto dai vari membri della loro crew (ma anche Grace Cummings ha scelto un brano, per la cronaca la ballata Work This Time) ed è in larga parte orientata a mega jam psichedeliche di sapore Grateful Dead.
Partono con la fulminante Danger $$$, tratta da uno dei loro vecchi dischi garagisti, ma poi si tuffano subito in una Wah Wah super allungata e densa di improvvisazioni, così come faranno in The River e in una mastodontica e fenomenale, oltre mezz’ora, The Drippong Tap. In mezzo c’infilano un paio di brani nuovi, Mirage City e Sad Pilot, che farebbero pensare che il prossimo disco sarà dedicato al country rock. La seconda parte di show vira verso un sound più affilato e potente, prima transitando da quello che è il loro sound forse più iconico, quello di una psichedelia moderatamente indiavolata, qui cristallizzata nel terzetto Sleep Drifter, Honey, Billabong Valley, poi nella mezz’ora finale sfociando nel metal con Motor Spirit, Dragon e Self-Immolate, genere riletto con filologia, ma palesemente più un divertissement che non una cosa da prendere sul serio fino in fondo.
Due ore secche di concerto, favolose come sempre.