Foto: Filippo De Orchi

In Concert

Kenny Wayne Shepherd live a Mezzago (MB), 26/04/2015

Avrebbe meritato uno spazio più ampio Kenny Wayne Shepherd per il suo infuocato concerto al Bloom di Mezzago ma ancora una volta il folto e appassionato pubblico accorso a vedere la più vicina reincarnazione di Steve Ray Vaughan si è trovato costretto a vivere il concerto in condizioni che definire disagevoli è un eufemismo. Pigiati come sardine in scatola, accaldati, nessuna possibilità di movimento, gli schermi che nel bar in fondo potevano servire d’aiuto per vedere qualcosa e non immaginarsi il concerto, non collegati con quanto avveniva sul palco, insomma una brutta fruizione dello spettacolo, nonostante l’acustica fosse decisamente buona. E sì che il concerto era sold-out da giorni e facilmente prevedibile era la massiccia partecipazione di appassionati del rock/blues richiamati da uno dei “giovani” chitarristi più in auge nel genere, assieme a Joe Bonamassa e Gary Clark Jr.
Detto questo, il concerto è stato potente e vigoroso, con un KWS scatenato con la chitarra a ripercorrere le sue strade e i suoi miti con una bella carrellata di brani propri ed altrui. In primo piano il suo ultimo Goin’ Home con tante cover estratte da quel disco ma anche qualche rimasuglio dal lontano Ledbetter Heights (Deja Voodoo ed una struggente While We Cry) e Trouble Is… con la applauditissima ballata Blue On Black con cui KWS e la sua band dopo un’ora e mezzo di concerto sono tornati sul palco per un encore che ha visto portare in scena una devastante versione di Oh Well degna dei Fleetwood Mac al Boston Tea Party nel 197o ed una lancinante Voodoo Chile. Steve Ray Vaughan è l’indubbio maestro di questo giovane e biondo chitarrista della Louisiana, phisique du role e manico incandescente che mischia il blues con l’hard-rock in modo spregiudicato ma riesce comunque a mantenersi legato al Delta e alla storia delle dodici battute. Ha usato poco la slide e specie nella parte iniziale dello show ha cavalcante un focoso hard-drive rock n’roll che in qualche momento ha fatto venire in mente i primissimi Black Crowes, grazie anche al supporto di una sezione ritmica implacabile (in primis il batterista Chris Layton, al tempo con SRV) e ad un tastierista (Riley Osbourn) che ha macinato il boogie con la bravura e la maestria dei pianisti delle southern rock band. Da par suo il cantante Noah Hunt ha svolto il suo compito con maturità ed umiltà, sciorinando una voce dalle inflessioni negroidi e soul.
Il più sentito omaggio a Steve Ray è avvenuto con la ripresa di The House Is Rockin’, anche se la Fender scorticata di Shepherd, i suoi ganci e le sue aperture hanno più volte ricordato il maestro texano, in altri momenti è venuto fuori invece un chitarrista travolto dalla sua esuberanza e veemenza giovanile e allora Kenny Wayne si è lasciato andare a numeri in cui ha esibito platealmente la sua ottima tecnica, numeri poco originali più digeribili dall’universo metal e hard che dal popolo del blues. Ma il pregio di chitarristi simili è proprio quello di costituire una cinghia di trasmissione tra il blues ed il pubblico più ampio del rock, è stato così nel passato, negli anni sessanta e settanta (fu così all’inizio anche con Johnny Winter), è così ora, ben vengano quindi personaggi di questo calibro, irruenti e spettacolari se questo vuol dire salvaguardare e offrire delle chances di attualità ad un genere, altrimenti patrimonio esclusivo di sopravvissuti ormai settantenni. Così, vicino a degli assoli che lambivano un hard rock/blues un po’ troppo di grana grossa per il sottoscritto, sono risuonate belle e muscolari le sue True Lies e Never Lookin’ Back e versioni ad alto voltaggio di Talk To Me Baby di Elmore James, You Done Lost Your Good Thing di BB King, I’m A King Bee di Slim Harpo ed Everything Is Broken di Bob Dylan. Alla fine dopo il fiotto di incandescente blues riversato dal palco, gli applausi scroscianti di un pubblico stremato da tanta energia e sudore. Ottimo concerto, nonostante tutto.

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