“...Il jazz è un corpus in costante evoluzione e crescita sul quale tutti, direttamente o indirettamente, fanno affidamento…”: venivano in mente le parole del critico George Grella jr. non appena varcati i cancelli del Circolo Magnolia di Segrate, praticamente una propaggine di Milano, lo scorso 16 luglio, quando sul grande palco all’aperto del club era previsto il concerto di Kamasi Washington, perchè ancor prima che la tesi evoluzionistica di Grella venisse confermata dalla straordinaria performance dell’artista americano, le proporzioni della folla lasciavano supporre che il jazz sia diventato oggi una musica per tutti, dagli attempati appassionati di John Coltrane e Miles Davis, che non potevano mancare, fino al pubblico di giovani hipsters, che non fa alcuna differenza tra la mescola urbana di hip hop e r’n’b proposta dall’opening act Masego e il soffio colto del sassofonista.
Del resto Kamasi Washington è il primo a proclamare dal palco che “...le differenze non vanno tollerate, bensì celebrate…” e non c’è dubbio che sia credibile, visto che l’esortazione viene da un personaggio che con quell’aria stravagante a metà tra Baby Huey e Sun Ra, non potrebbe essere più eccentrico e “diverso” dalla gioventù radical chic che riempie la platea e che probabilmente si trova lì grazie al passaparola dei social o a qualche video di Youtube, che hanno evidentemente trasformato il musicista afroamericano nell’artista più cool del momento. Oggi i termini di giudizio non sono più quelli della critica ufficiale e delle riviste di settore e l’influenza dei mezzi di comunicazione è stata sostituita dal tam tam della rete, per questo sorge il dubbio che l’interesse dei ragazzi e le ragazze che applaudono Washington come fosse l’ultima delle rockstar, sia stato suscitato dalla complessità dell’opera colossale e affatto immediata dell’artista o anche solo dell’ultimo triplo CD e quadruplo vinile Heaven & Earth, mentre la sensazione è che l’inatteso successo della serata sia piuttosto tutta un questione di hype.
Va sottolineato che i concerti di Kamasi Washington sono caratterizzati da un’immediatezza e una freschezza melodica che stuzzica il palato anche dei profani, perchè il sassofonista lascia da parte il carattere spirituale e avanguardista che a volte affiora nei suoi dischi, sfoderando un fraseggio caldo e soul che ricorda Maceo Parker più che John Coltrane, senza contare che il settetto composto dal padre Rickey “Pops” Washington al clarinetto e al flauto, dalla cantante Patrice Quinn, dal trombonista Ryan Porter, dal funambolico tastierista Brandon Coleman, dal contrabbassista Miles Mosley e dai batteristi Tony Austin e Ronald Bruner Jr. fluttua liberamente tra orizzonti jazz, romanticismi soul ed esplosioni funky come fosse l’ensemble di James Brown. Ciò soddisfa anche chi non era lì solo per qualche passo di danza o per qualche sorso di birra, perchè il sassofono di Washington è davvero ispirato, il suono collettivo feroce e potente, la sinergia tra i musicisti fantastica e la bellezza delle composizioni tale da lasciare spesso con il fiato sospeso, sia che si tratti delle atmosfere raffinate e seducenti di Journey, della spinta funk di Street Fighter Mas, delle contaminazioni blaxploitation di Fists Of Fury, dell’aura meditativa di Askim o delle circonvoluzioni aeree della lunga Truth con largo spazio ai solismi e al virtuosismo.
Lo scroscio di applausi e le manifestazioni di entusiasmo che si levano alla conclusione di ogni assolo e di ogni brano evidentemente caricano la band e convincono lo sciamanico leader a protrarre il concerto ben oltre l’orario stabilito, perchè in fondo come scriveva James Ellroy “…Be Bop è musica ribelle. Parla di oppressione, tabù musicali e fine della schiavitù dell’ortodossia formale…”: un concetto che Kamasi Washington deve avere sempre ben chiaro in mente.