Con soli tre album l’australiana Julia Jacklin è già diventata uno dei nomi di punta del nuovo cantautorato femminile contemporaneo, se non al pari di artiste ormai celebrate unanimamente come Angel Olsen, Sharon Van Etten o Phoebe Bridgers – per nominare giusto tre delle più note – comunque lanciatissima sulla buona strada.
Il suo recentissimo Pre Pleasure ha raccolto pressoché ovunque recensioni entusiastiche – curiosamente con la sola eccezione del “nostro” Gianfranco Callieri, scettico al riguardo nella sua analisi del disco – a dimostrazione di quanto sopra sostenuto e pertanto Jacklin sta iniziando con più forza a essere considerata per il suo valore intrinseco, piuttosto che per la sua aderenza a modelli cantautorali ormai consolidati nel momento in cui iniziava a muovere i primi passi.
Ad attenderla al Magnolia c’è quindi un pubblico decisamente più numeroso rispetto all’ultimo passaggio di qualche anno fa, col significativo spostamento dal palchetto piccolo a quello più grande sotto il tendone. Non siamo di fronte a un sold out, ma di questi tempi probabilmente non c’è da lamentarsi.
Come spesso accade ultimamente a Milano, specie se è di questo tipo di suoni che parliamo, tra il pubblico ci sono parecchi stranieri, probabilmente ragazzi che studiano in città o forse gente di passaggio o persino fan che vengono dall’estero. Non arrivo a dire che sono necessari a serrare le fila, ma la loro presenza sembra farsi sempre più significativa e lascio a voi le considerazioni in merito sulla questione.
La prima sorpresa arriva dall’apertura di concerto a opera di Erin Rae, cantautrice di Nashville, Tennessee, più vicina agli ambienti alt-country e Americana rispetto ai nomi fatti finora, nel 2022 tornata con un gran bel disco intitolato Lighten Up, allestito con nomi di peso quali Jonathan Wilson, Drew Erickson e Andrew Combs e nel quale è ospite pure Kevin Morby, a restituire la partecipazione di Erin in un pezzo del suo ultimo album.
Sul palco da sola, accompagna le sue belle canzoni con una chitarra acustica, mettendo a segno un pugno di brani garbati, classici, sempre abbelliti da melodie soavemente pop, intrise di un pizzico di malinconia, ma servite con limpida gentilezza e modi eleganti. Folk, country e gli scenari del Laurel Canyon, a questo rimandano la manciata di pezzi che in una piacevole mezz’ora Erin Rae esegue sul palco, conquistando il pubblico che nel frattempo inizia a riempire la sala.
Non passa neppure mezz’ora da quando Rae scende dal palco che le luci nuovamente si abbassano. Dalle casse parte a tutto volume My Heart Will Go On di Céline Dion (perché??) che sfuma mentre Julia Jacklin sale on stage per eseguire in solitaria Don’t Let The Kids Win, il brano che dava il titolo al suo disco d’esordio uscito nel 2016. È l’unico brano che suona da sola però, perché qui è presente con una solida band ad accompagnarla, formata dal chitarrista abituale, l’unico che era con lei anche nei tour precedenti, William Kidman, Myriah Gilbert a basso e voce, Jennifer Aslett a tastiere, chitarra e voce e Laurie Torres alla batteria.
Julia ha un atteggiamento abbastanza svagato sul palco, non tanto di una che non si prende sul serio, quanto piuttosto di una che intende mettere un minimo di filtro ironico a difesa di canzoni intense e personali. Lo fa tra un pezzo e l’altro, quando scherza col pubblico o quando scambia delle battute con una ragazza che arriva dall’Australia, da un posto non troppo distante da dove arriva lei, posti dove, par di capire, non è che siano molte le cose che è possibile fare. È invece serissima e passionale quando canta e suona, coadiuvata da una band che serve benissimo la sua splendida voce e le sue canzoni, come su disco divise fra momenti rock in cui il tasso elettrico sale (Be Careful With Yourself, l’intensa To Perth, Before The Border Closes che stava su un singolo della Sub Pop, la rugginosa e potente I Was Neon), ballate col cuore in mano (la stupenda Body ad esempio) o pezzi che lei stessa non esita a definire pop (Love, Try Not To Let Go).
Kidman è un chitarrista che sa bene quando è il caso di ricamare e quando invece c’è bisogno dell’affondo, Aslett è decisiva sia alle tastiere che quando imbraccia la chitarra (portandole a tre!) per rendere il suono più vigoroso e la sezione ritmica incornicia solidamente il tutto, con Gilbert perfetta alla seconda voce.
In totale un’ora e mezza scarsa di show coinvolgente e appassionato, che non ha minimamente deluso e che ha dimostrato che la canzone d’autore, quella capace di parlare ancora al cuore, anche e soprattutto forse delle nuove generazioni, quella lontana dal purismo dei generi e capace d’interloquire (giustamente) col pop, passa anche da qui.