Mi ero probabilmente fatto ingannare dal trionfo di pubblico che l’aveva accolta al Primavera Sound, ma appena arrivo al Magnolia mi rendo subito conto che ero stato un tantinello ottimista. Non è per nulla facile e immediata la musica di Julia Holter, tanto che per certi versi potrebbe risultare già sorprendente il fatto che ci siano state duecento persone, così ad occhio, pronte a sfidare caldo e zanzare per assistere ad una performance a tratti anche ostica, forse più adatta a un teatro che non a uno spazio all’aperto.
Tutte cose che non hanno per nulla impensierito una trasognata Julia Holter che, invece, non solo non si è per nulla preoccupata di suonare davanti a un pubblico probabilmente un po’ più ridotto del solito, ma è risultata anche particolarmente colpita dalla venue, con le luci del palco (quello più piccolo del Magnolia) che illuminavano gli alberi del parco attorno e gli aerei in partenza da Linate che ogni tanto entravano come elementi sonori aggiunti con il loro rumore sordo dei motori. Scambiando due chiacchiere con lei a fine concerto, quando è andata al banchetto a firmare i dischi e a parlare coi fan, mi ha confermato grande entusiasmo per la serata e per il posto (in effetti molto bello, ammettiamolo), tanto da far cadere nel nulla tutte le considerazioni fatte all’inizio. E per quanto il concerto di Barcellona sia stato assolutamente stupendo, inoltre nella più perfetta delle location, la serenità e se vogliamo la leggerezza con cui Julia e la sua band hanno affrontato la serata, ha finito col renderla forse ancora più speciale.
Accompagnata dalla stessa band con cui ha realizzato l’ultimo, stupendo Aviary – Dina Maccabe (violino, viola, voce), Sarah Bell Reid (tromba e filicorno), Tashi Wada (synth e cornamusa), Devin Hoff (contrabbasso) e Corey Fogel (batteria e percussioni), un gruppo di musicisti sensazionali, parso, soprattutto nella sua componente femminile, veramente molto affiatato – proprio sulle musiche di questo disco la Holter (ovviamente a voce e tastiere) ha costruito l’ossatura dell’intero concerto, a partire dalla In Gardens’ Muteness con la quale ha aperto in solitaria, prima che gli altri la raggiungessero sul palco per dar vita a quel febbrile e visionario magma free che è la bellissima Turn The Light On.
Dotata di una voce straordinaria, capace di tratteggiare le melodie pop delle canzoni tratte dal penultimo Have You In My Wilderness, così come di sperimentare l’interazione tra il puro suono delle parole e l’alveo musicale in cui erano contenute (Voce Simul, uno dei momenti più impervi, ma anche emozionanti del concerto), così come di svettare verso il cielo con acuti penetranti, la Holter ha dispiegato tutte le sue doti di cantante, strumentista, sperimentatrice, songwriter e musicista, tutti elementi che la posizionano ai piani più alti tra gli artisti della sua generazione.
Certo, seguirla in ogni sua espressione musicale può risultare per alcuni difficile, ma quando poi partono perle melodiche (sia chiaro, non meno originali degli altri pezzi) come ad esempio le bellissime I Shall Love 2, con cui ha chiuso il set, o come Betsy On The Roof, suonata invece nell’unico bis, non sciogliersi in pura emozione diventa difficile. A noi italiani ha poi concesso un ulteriore regalo, eseguendo nella nostra lingua, tra l’altro con una dizione tutt’altro che raffazzonata, una bella e intima versione di Chiamami Adesso di Paolo Conte. Insomma, come non volerle bene?