Trovare tra il pubblico di Jonny Lang un gruppetto di ragazze urlanti in contemplazione del carismatico sorriso del frontman anziché del livello prestativo della band, non era una cosa con la quale avevo fatto i conti. Evidentemente la personalità dell’ex ragazzino del Dakota, già prorompente ai tempi degli esordi, riesce ancora a conservare il suo charme. Il volto scolpito dei suoi 38 anni, però, è oggi segnato da una maturità e un’esperienza che sommano due decadi di carriera e hanno contribuito a tonificare l’immagine di un tempo del “bello e talentuoso”. La gran parte dei presenti questo lo sa: la platea, infatti, non appartiene a una schiera di semplici curiosi, ma sulle note dei brani che si snodano durante l’arco della serata dimostra di conoscere molto bene il musicista americano e la sua produzione.
Jonny Lang doveva venire in Italia a Maggio assieme a Walter Trout e Kris Barras, per una super notte rock incendiata dalle 6 corde, ma per qualche motivo la data è saltata. Agguantato per un braccio dalla Barley, lui arriva lo stesso, impegnato in un tour che lo vede gironzolare un poco per l’Europa e sostenere decine di date nell’imminente estate americana. Era il 1995 quando si presentava con l’irriverenza e la presunzione dell’enfant prodige ai suoi contemporanei; oggi non ha più nulla da dimostrare, e ciò che Jonny Lang regala al Serraglio, in uno spento lunedì milanese, è molto rock, sudore e passione, con una band che lo sostiene dimostrando il gran da fare.
La partenza scalda a dover i motori attraverso i giri vorticosi di una Don’t Stop, tratta da quel Turn Around che lo “rilanciava” sul mercato delle cose interessanti, fatta di smorfie, grinta, caldo, e umidità, “urlata” con quella voce afona che ti lascia pensare come diavolo farà a giungere a fine concerto. Le escursioni, in poco più di un’ora e trenta tirata come se fosse un 100 metri piani e riposando solamente su un paio di slow, abbracciano una manciata di album, ma per fortuna la scaletta si arrampica sulla miglior produzione, purtroppo non sempre brillante come la reputazione che si è guadagnato dal vivo. In studio, infatti, lentamente Lang ha imboccato la via del mainstream fino al deludente Long Time Coming, del quale, sul set, ripropone solo un pezzo, una sinuosa versione di Red Light “sfregiata” dall’enfasi di un sintetizzatore per tastiera che produce quel tipico suono mai amato da chi scrive. Le sorti del concerto vengono però affidate ai licks della sua chitarra, ai riff che accendono le melodie nella sala, al feeling indiscusso dei musicisti. Non vi è la purezza del blues, pochi sono gli incisi da 12 battute, ma quando arrivano, lasciano il segno. Ed è così che Rack Em, coi suoi ricami bluesy, si spinge fin sui sentieri del jazz, arricchita dagli spazi espressivi lasciati ad ognuno dei musicisti. Jim Anton viene lanciato in un delizioso assolo di basso e Jonny si inserisce sull’ottima sezione ritmica del duetto di Minneapolis per poi lasciare spazio agli squisiti call and response tra la seconda chitarra di Zane Carney e il piano di Tyrus Sass in un crescendo di energia e potenza fino al tremendo groove di Snakes, che fa ballare l’intera platea.
Il focus, oltre a spostare l’attenzione sulle prodezze da solista di Lang, si concentra sullo spirito della band, all’interno della quale la chitarra sta sì davanti e al centro, ma sempre ben integrata in un gioco di squadra. Saltando a piacimento dalla sua Les Paul alle note nasali della Fender Telecaster Thinline, Lang si muove tra ritmiche funky e arpeggi strappalacrime, suoni taglienti tirati in overdrive, crunch e dintorni. Così, passeggiando tra la voce in falsetto dell’ultimo Signs e il suono pieno di una Quitter delle origini, c’e spazio anche per una cover di Livin’ for The City (Stevie Wonder), eseguita sugli armonici della seconda chitarra.
Giunti al finale il chitarrista americano saluta Milano dedicandole la languida ballata Bring Me Back Home, e imbracciando l’acustica in solitario sulla tanto attesa Lie To Me. Quando la band torna sul palco è un’impennata tra rabbia e passione, epilogo di un concerto musicalmente tirato ma che sintetizza la crescita di Jonny Lang anche come appassionato songwriter. Una formazione solida, tenuta insieme da un’intesa invidiabile e una grinta che fatica ad esaurirsi. La reputazione live continua ad essere preservata: Jonny dimostra di aver conservato nel tempo la capacità degli esordi di mescolare blues, funk e rock in un mix esplosivo, assieme a una buona dose di energia e tanto onesto sudore.