JESSIE TERRY
Arcadia
Wander Recordings
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Secondo il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, oggetto delle nostre nostalgie sarebbe «l’irreversibile», ciò che riguarda la sfera del passato e, quindi, dovendo misurarsi con lo scorrere del tempo, diventa definitivo. Possiamo rivivere tutto, ma non potremo mai rivivere il momento in cui abbiamo vissuto una certa cosa per la prima volta. La vita, non ripetendosi per definizione, diventa essa stessa oggetto d’infinita nostalgia. E chissà quanta deve nutrirne, di nostalgia, uno come Jesse Terry, che non avrà cinquant’anni, proviene dal New England, è in circolazione dal 2009 e giusto qualche stagione fa, dopo aver realizzato ben 4 extended dedicati alle sue canzoni preferite dagli anni ’60 a oggi, li ha compendiati, addirittura espandendone il contenuto, nel monumentale (per dimensioni, se non altro) Forget Me Nots Vol. 1 & 2 (2022), doppio album con 22 tracce in origine recanti le firme di Joni Mitchell, Tom Petty, Crowded House, Townes Van Zandt, Cindy Lauper, Tom Waits, Eric Clapton, Bob Dylan, Elton John, Jimmy Webb e chi più ne ha più ne metta.
Nostalgia dell’irripetibile (e dell’irripetuto, aggiungerei) o candido e appassionato omaggio alle personali fonti d’ispirazione? Forse entrambe le cose, anche se a giudicare dal contenuto di Arcadia — settimo disco in studio dell’artista — il luogo idilliaco evocato da Terry nel titolo nuovo progetto sembra realmente essere quello stato di appagamento, soprattutto mentale, del quale ciascuno di noi può godere quando ha l’opportunità di tornare, e poi ritornare ancora, in un cerchio d’estasi perfetto, ai film, ai libri, ai concerti e agli LP più importanti della propria vita.
Accompagnato da un gruppo di musicisti del giro Americana di grande esperienza professionale (nel loro curriculum, importanti collaborazioni con Rodney Crowell, Anderson East, Parker Millsap, Lee Ann Womack etc.), Terry ha voluto confezionare, stavolta componendolo in prima persona, un altro catalogo delle proprie predilezioni in cui mettere in evidenza come, per lui, la malinconia folkie di Jackson Browne e James Taylor, o il nervosismo elettrico di certo Neil Young, abbiano la stessa, identica importanza.
Ecco così alternarsi, dopo l’attacco springsteeniano della grintosa title-track, la dolcezza West-coast di una Burn The Boats dallo splendido arrangiamento anni ’70, il rock alternativo di vent’anni dopo (qualcuno ricorda i Semisonic di Dan Wilson?) riepilogato nella scattante Gunpowder Days, le bordate alla Crazy Horse della febbrile Poison Arrow, la dimensione elettroacustica (da Paul Simon dei primi ’80) della commossa Someone In Repair, un apocrifo della Mary Jane’s Last Dance del Seminole della Florida ribattezzato Waiting Out The Hurricane.
È vero, nei pressi del finale, affidato rispettivamente a una Hey Jude in sedicesimo (Headlines) e a una traduzione autografa delle ballate pianistiche di Marc Cohn (Where You Came From), il perenne intrecciarsi di citazioni, rimandi, calchi, note a margine, interpretazioni e situazioni ripescate (oltre ogni ragionevole dubbio) dalle opere altrui rischia di farsi stucchevole. Ma questo — quello in cui tutto è già accaduto — è il tempo in cui ci è dato vivere: inutile cercare originalità là dove possiamo giusto aspettarci una rispettosa celebrazione dei «classici». Anche se, a essere sinceri, sebbene la Storia (con la «s» maiuscola) non si ripeta, sarebbe forse il caso, per ricordarla e festeggiarla, di escogitare sistemi meno prevedibili.