Non ero neppure maggiorenne quando scoprii la musica dei Jane’s Addiction. Dirò di più: furono proprio i loro dischi – con quelli dei Sonic Youth – ad iniziare a deviare una formazione musicale ancora in divenire, ma fino a quel momento fondamentalmente devota al più classico rock americano. Basterebbe provare a mettere sul piatto la mia copia in vinile di Ritual De Lo Habitual per capire, dal suo gracchiare, quante centinaia di volte ha girato sotto una puntina.
Scusate se la metto sul personale, ma i Jane’s Addiction non sono mai stati un gruppo qualsiasi per me. Del resto, tutti noi appassionati di musica abbiamo band verso cui proviamo un affetto speciale e loro, per me, sono una di quelle. Questo però non vuol dire avere i paraocchi, anzi, c’è il rischio che la cosa ci renda iper critici. A stento ho tollerato i loro dischi post reunion, quelli del dopo Porno For Pyros per intenderci, Strays del 2003 (forse ancora vagamente ascoltabile, se di bocca buona) e The Great Escape Artist del 2011 (decisamente terribile) e, insomma, ormai li consideravo solo una (grande) live band. Si, perché quando li avevo visti proprio nel tour di Strays (mi rendo conto, ben tredici anni fa ormai), i quattro erano riusciti ancora a mettere in scena uno show selvaggio e potente, vivo, con la scintilla dell’arte ancora a fiammeggiare. Memore di quella serata, potevo mancare ad un concerto dedicato proprio al venticinquennale di Ritual De Lo Habitual? Ovviamente no.
Ora, sapevo bene che sarebbe stato soltanto entertainment, che il tutto si sarebbe risolto in un tuffo nostalgico nel passato, che non mi sarei trovato di fronte a nulla di particolarmente rilevante, dal punto di vista artistico, nell’oggi. Erano cose preventivate e che, andandoci, ovviamente implicitamente accettavo. Quello che magari non mi aspettavo, però, era una performance così stanca e incolore.
Ad attenderli al Fabrique di Milano il pubblico è tanto e caloroso. Credo, visto che è l’unica data italiana in programma, che parecchia gente si sia pure sobbarcata un discreto viaggetto per venirseli a vedere. Tutta la prima parte del concerto è dedicata all’esecuzione di Ritual De Lo Habitual, ma appena parte Stop scontiamo il primo shock: la qualità audio è a dir poco pessima (e si che io sono a centro sala, a neppure dieci metri dal palco) e quello che arriva dalle casse è un pastone semi incomprensibile che si prolunga pure quando parte No One’s Leaving. Il fonico non s’è addormentato e le cose migliorano sensibilmente a partire da Ain’t No Right, tanto che finalmente si inizia a sentire ciò che i Jane’s Addiction stanno facendo. Stephen Perkins, bisogna ammetterlo, rimane un grandissimo batterista, Chris Chaney al basso non fa rimpiangere più di tanto la mancanza di Eric Avery (che comunque era altra cosa), mentre Dave Navarro, il chitarrista che fa rima con tamarro (vedasi il look), rimane efficace e personale alla sei corde, anche se fin troppo evidentemente non è granché partecipe.
Se musicalmente siamo dalle parti del compitino ben fatto, ben altre parole dobbiamo usare per Perry Farrell: la voce praticamente è scomparsa per lasciare spazio ad una cosetta flebile più di una volta tendente alla stecca, con la situazione salvata unicamente da un pubblico che conosceva a memoria tutte le canzoni e che non ci sta a rinunciare al divertimento. Perry, continuamente incitato dalla folla, è moscissimo, davvero bollito, all’apparenza anche a disagio in un ruolo che evidentemente non sente più suo, ma che deve provare ad incarnare comunque. L’animale da palco si è definitivamente volatilizzato: al suo posto un dandy di mezza età che s’atteggia bevendo vino direttamente dalla bottiglia, sproloquia dello shopping a Milano con moglie e figli, e che soprattutto è del tutto inadatto ad incarnare la torbida, oscura sensualità dei pezzi della sua band, tanto da dover ricorrere alla presenza, alla fine piuttosto tristotta, di ballerine sul palco per vivacizzare un po’ la scena.
Con un repertorio come quello che hanno, che qualche bel momento lo riescano comunque a strappare, in fondo è quasi ovvio: Been Caught Stealing rimane uno dei pezzi simbolo degli anni ’90; Three Days non può non emozionare e anche Of Course e Classic Girl sono pezzi che tutt’ora emanano fascino (e che Farrell vocalmente riesce a padroneggiare un po’ meglio).
Terminata l’esecuzione di Ritual…, riattaccano con una scolastica cover di Rebel Rebel di Bowie, con una Mountain Song dove riappare un briciolo della vecchia verve, con una Just Because leggerina (unica incursione nel repertorio della seconda fase di carriera), con una Ted, Just Admit It… che ben altra visionaria violenza avrebbe meritato (al posto dell’imbarazzante presenza di due ragazze appese a dei ganci a svolazzare sulla band), per poi chiudere, a neppure un’ora e mezza dall’inizio, con la solita, acustica Jane Says.
On stage, la band, prima di scendere, s’inchina, sorride, si gode un trionfo che però è del tutto posticcio, venato, per me, di un’amara tristezza. Le luci si accendono, dalle casse parte Blue Trane di John Coltrane. Musicalmente, è il momento più emozionante della serata.