MEMORIE DALLA QUARANTENA
Troppo facile citare quella vecchia pagina di “Alta Fedeltà” in cui Nick Hornby spiega come tutti questi dischi e tutti questi libri alla fine altro non sono che il nostro mondo lontano dal mondo. Un avamposto, o una retroguardia protetti. Un riparo assemblato con carta, plastica e vinile. Un luogo in cui tirare il fiato, scaldarsi e guardare avanti. «È così sbagliato – si chiedeva – se voglio essere a casa in mezzo alla mia collezione di dischi? Collezionare dischi non è mica come collezionare francobolli, o sottobicchieri di carta, o bussole antiche. C’è tutto un mondo, qui, un mondo più bello, più sporco, più violento, più pacifico, più colorato, più aereo, più pericoloso, più amoroso di quello in cui vivo; qui ci sono la storia, e la geografia, e la poesia, e le innumerevoli altre cose che avrei dovuto studiare a scuola, musica compresa». Chi ha macinato chilometri e chilometri per assistere a un concerto, consumato una quantità incalcolabile di ore sulle tracce di una particolare edizione, lungo i banchetti di un mercatino di libri usati, o leggendo e rileggendo le minuscole note e i credits di un disco (prima che lo streaming stabilisse che la musica, tutta quanta, doveva essere sempre qui, here and now) saprà sicuramente di cosa sto parlando.
Ordinati e riordinati gli scaffali con dischi e libri in tre modi differenti nel giro di trenta giorni, scordate e riaccordate le chitarre una cinquantina di volte, tirati a lucido i vecchi amplificatori e tolta la polvere da anni di riviste, da articoli ritagliati, mandati a memoria e ormai ingialliti, oggi rimaniamo noi. Spogliati, però, di ogni abitudine protettiva, di ogni cliché da collezionista più o meno compulsivo. Da onnivori dello streaming, da sentimentali del vinile, da romantici delle edizioni tascabili, ci tocca essere sinceri fino in fondo con noi stessi. E da un mese infatti, almeno qui, continua un esercizio di sottrazione, di riduzione all’osso di letture e di ascolti. Ci si circonda di quelle opere che, per la nostra mente e per il nostro animo, consideriamo vitali. Il resto rimane sullo scaffale, roba da collezionisti. Ogni libro letto, ogni canzone ascoltata nelle ultime settimane, ci ha raccontato qualcosa di più innanzitutto di noi stessi. E ogni disco, ogni libro, ha aggiunto un particolare mancante al nostro personale autoritratto. Quasi un ritorno alle basi.
Che i tempi si stessero dirigendo senza preavviso da qualche parte al di fuori dall’ordinario, l’avevamo capito da settimane non solo assistendo impotenti alla tragedia collettiva che si consumava negli ospedali di buona parte del paese. C’era anche della grazia, sotto tutta quella pressione. C’erano quelle note di pianoforte, quegli archi, quei misteriosi sedici minuti di Murder Most Foul. Un blues metafisico regalatoci da un Bob Dylan piovuto all’improvviso, come un temporale estivo, quando il mondo era già deragliato. Una linea melodica essenziale, un testo fitto e dai rimandi infiniti, una specie di romanzo in musica, e una dedica fatta recapitare da lontano a casa di noi tutti: «Stay safe, stay observant and may God be with you». La voce di Dylan, specie quella di The Bootleg Series Vol. 8 – Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1989-2006, oggi continua a essere una buona compagna di viaggio per attraversare tempi incerti e mai sperimentati prima.
Seppur ridotto all’osso, in una sorta di auto-selezione non dichiarata, è comunque un gruppo affollato quello che dalle casse del mio stereo si fa strada fin verso la linea bianca della ringhiera del balcone, nei pomeriggi di questa primavera dispari. Ci sono per esempio le canzoni virate seppia di Evening Machines di Gregory Alan Isakov, ci sono tutti i panorami visti dall’alto delle mongolfiere di Gianmaria Testa e c’è il mare illuminato dalla luce di Marsiglia dei libri di Jean-Claude Izzo – due artisti amici nella vita, questi, che chissà perché in tempi lividi viene sempre naturale rimettersi ad ascoltare.
Ci mancano le persone. Ci mancano i concerti. Quelli piccoli, da guardare con un bicchiere in mano. E anche quelli grandi, che negli ultimi tempi per tanti di noi stanno diventando un lusso. Eppure internet non è mai stata così piena di musica dal vivo come in questo aprile. Raramente il web è riuscito a scaldare i cuori e ad avvicinarci come poche sere fa, quando Glen Hansard, in diretta Instagram dalla sala da pranzo di casa sua, ha regalato un’ora di canzoni per voce e chitarra, con la partecipazione di un paio di vicini musicisti. Lui in casa con la finestra aperta, loro fuori, a debita distanza, nel giardino comune. Eravamo in cinquemila ad ascoltare. A proposito, il 21 aprile Hansard compie gli anni: ha fatto sapere che l’esperienza potrebbe ripetersi. Per festeggiare, almeno un po’. Magari ci vediamo là.
È dagli show di Broadway di due anni fa che nella voce di Bruce Springsteen si possono invece leggere, come in rilievo, le rughe del tempo. Ed è bello ascoltarlo parlare nella sua E-Street Radio DJ session: oltre 40 minuti di riflessioni e di musica (soprattutto di altri colleghi) che Bruce aveva voglia di mettere sul giradischi e di far sentire agli amici, come una volta, come se fossimo tutti nel suo salotto. Apre con Turn On Tune In Drop Out dei Cracker e più tardi ci fa ascoltare Angel From Montgomery di John Prine.
Nella mia cucina era dai tempi dell’università che la moka non lavorava così tanto. Si beve sul balcone, a guardare lo scorcio di città vuota che passa da qui sotto, o gli alberi del parchetto che fiancheggiano la strada. La musica dello stereo arriva comunque. Il vicino, dall’altra ringhiera, prima mi cura e poi mi dice che tutte le volte che mi affaccio col caffè si ricorda di Eduardo De Filippo in “Altri fantasmi”: la scena del balcone, quella della teoria sul caffè perfetto. C’è un album che finisco sempre per ascoltare a ripetizione ogni anno in aprile, il mese in cui Cremona è gentile. È il doppio live registrato da Ivano Fossati a inizio anni Novanta proprio qui, nel teatro della mia città. Il primo volume si intitola Buontempo. È aprile, e non c’è motivo per cambiare la vecchia abitudine.