MEMORIE DALLA QUARANTENA
Vi racconto il mio paradosso. Lavoro in solitaria, ho il mio ufficio, ci sono solo io. Arrivo alla mattina e accendo lo stereo, poi il computer. Ho musica nelle orecchie quando voglio, da mattina a sera, senza nessuno che mi dica nulla. La quarantena forzata mi ha portato spesso a casa, moglie e figlio in cassa integrazione, figlia piccola alle prese con una didattica a distanza che la innervosice. Ma è bello, ci troviamo, cuciniamo, giochiamo, guardiamo Netflix, guardiamo Sky, a volte insieme, altre ognuno per conto proprio.
Ma, e qui sta il paradosso, mi manca la musica. A volte mi metto le cuffie e ascolto, ma mi rendo conto che non posso vessare la famiglia con i Napalm Death al volume di ascolto necessario, mi arriverebbero addosso piatti e insulti. Quindi meno musica ma più film. Ho finalmente potuto guardarmi film che avevo puntato, che non avevo mai visto e che ora ho finalmente potuto vedere, oppure riscoprire lungometraggi che già erano entrati tra i miei preferiti. Non sono un conoscitore esperto ma credo che quasi tutti i film di cui vi parlerò non siano usciti in sala italiana, li ho visionati in streaming su vari siti, lingua originale e sottotitoli. Sicuramente Gianfranco (Callieri) sarà più bravo e meglio informato di me, la sua conoscenza è infinitivamente maggiore della mia, io vorrei solo mettervi a conoscenza di questi cinque film che, dal mio punto di vista, valgono veramente la pena di essere visti.
Comincio da una storia che mi ha letteralmente rapito, vale a dire quella di Hu Bo, regista cinese di 29 anni autore del lungometraggio An Elephant Sitting Still. In questo caso bisogna necessariamente partire dalla triste storia di questo ragazzo, suicida appena terminata la realizzazione di questa prima (e tragicamente ultima) sua opera. E non c’è nulla che tenga, la sua triste fine è la chiave di lettura per queste quattro ore di film impressionanti. La storia è semplice e si svolge nell’arco di un solo giorno, girando attorno alla vita di quattro personaggi, fatalmente destinati ad incontrarsi nella disperazione che il mondo ha loro riservato.
I protagonisti sono Wei Bu che per difendere il suo migliore amico, ferisce un bullo spingendolo giù da una rampa di scale; poi c’è Huang Ling, compagna di scuola di Wei Bu, della quale lui è innamorato, che vive con una madre vessatrice, e che trova conforto e ribellione nell’affetto (squallido) che le dà il vicepreside (anziano) della scuola. Il terzo è Yu Cheng, fratello del bullo ferito accidentalmente da Wei Bu, ossessionato dal senso di colpa per aver causato il suicidio del migliore amico. Infine c’è Wang Li, un anziano che convive con il figlio, la nuora e la nipotina e che cerca di ribellarsi al fatto di essere ormai destinato all’ospizio. Tutti e quattro ad un certo punto si ritrovano rivolti in un’unica direzione: quella di recarsi in un zoo lontano dove un elefante resta seduto, non curandosi del mondo, senza alcun interesse per ciò che lo circonda. Un luogo che diventa la metafora irraggiungibile di una vita normale e che possa donare una speranza di riscatto alla miserrima condizione nella quale i quattro si trovano. Scene fatte di visi e lunghi piano sequenza, scene pesanti e a volte insostenibili nella loro lentezza, eppure nessuna di queste sembra superflua e terminate le quattro ore nulla ci porta a un sospiro di sollievo: l’elefante non si vede, i protagonisti sono lì ad un passo ma la meta non è svelata. Tutta la tragicamente reale filosofia di Hu Bo però potrebbe benissimo essere trasmessa estrapolando una frase che il preside amante di Huang Ling dice a Wei Bu: “La vita non migliorerà, è tutta una questione di agonia. Questa agonia ha avuto origine con la tua nascita. Credi che trasferirti in un altro luogo cambierà il tuo fato? È una stronzata. Nuovi luoghi, nuovi dolori”. Purtroppo per il giovane regista è stato così, un film che mi ha commosso.
Il secondo film che mi ha colpito è stato Dronningen, film danese della regista May el-Toukhy di origini egiziane, capace di coinvolgere con una storia di ordinaria meschinità umana. Quello che all’inizio sembra un difficile riavvicinamento tra padre e figlio, diventa un drammatico confronto famigliare dominato dalle scelte istintive, irrazionali e fatali della moglie di lui, attratta dal figlioccio e sedotto in men che non si dica. L’amore si trasforma in paura, la passione si liquefa in verità nascoste, negate, sotterrate e rifiutate fino alla negazione totale di tutto. Una magistrale chiusura con la protagonista che sopravvive fisicamente a un peccato che la ucciderà moralmente.
Passiamo al terzo con il sorprendente regista non ancora trentenne Kantemir Balagov, russo, del quale ho visto Tesnota. Il suo è un linguaggio filmico semplice ma che sembra già quello di un regista consumato e che sa dove posizionare le giuste note per solleticare il pubblico. Gioca in casa girando la storia nei luoghi dove è nato e cresciuto, Kabardino-BalKaria, Cecenia, Mar Nero e Mar Caspio e si trova a perfetto agio nel descriverne miserie e virtù. La trama è preso detta: due ragazzi di una comunità ebrea vengono rapiti e viene chiesto un riscatto, la famiglia chiede aiuto alla comunità. Da qui si dipana tutta la vicenda. In una storia triste di divisioni etniche e religiose, tra conflitti comunitari ed egoismo puro nel quale l’unico filo conduttore che tutto riunisce e tutto separa è l’amore che incredibilmente il regista riesce a riversare in ogni singolo momento di questo film: da quello del padre per la moglie e per il figlio ma soprattutto (tanto, ma tanto tanto) per la figlia, a quello tra fratello e sorella, a quello dei fidanzati e infine a quello che sorregge tutto il film, cioè l’amore della madre verso la famiglia intesa come istituzione, irremovibile, irrinunciabile, indistruttibile. Un amore sbagliato, perverso, che fa imbestialire, ma perfettamente coerente se contestualizzato alla perfezione, come Balagov riesce tranquillamente a lasciar trasparire, nella precaria situazione politica ed economica in cui versano la regione e con essa tutti i suoi protagonisti. Per me un film clamoroso.
Quarta proposta con l’opera prima della regista vietnamita Ash Mayfair che con The Third Wife mette in scena uno spaccato di vita in un villaggio del Vietnam all’inizio del secolo scorso. Qui si dipana la storia triste e drammatica di tre donne, mogli di un ricco e austero proprietario terriero, la storia di donne che in realtà sono bambine (a 14 anni già pronte per maritarsi e partorire) costrette a convivere in una società profondamente maschilista, inutilmente vessatrice e diabolicamente subdola nei confronti di queste giovani ragazze. La più giovane aspetta un figlio e desidera fortemente che sia un maschio, la seconda moglie ha con lei un rapporto che diventa sempre più intimo, la prima moglie è ormai stanca e ammalata, ma è l’unica ad aver dato alla luce un primogenito maschio, che però rifiuta le imposizioni famigliari. Un intreccio dolce e delicato, pur nell’angoscioso ambito in cui si svolge, filmato con una fotografia sublime e che alla fine si rivela un affresco sussurrato ed estremamente commovente.
Infine ecco un titolo che già da molto tempo avevo intenzione di vedere e che finalmente sono riuscito a recuperare: Beasts Of The Southern Wild di Ben Zeitlin. Siamo nella stupenda location del Delta del Mississippi, ma dalla parte sbagliata del Bayou, quella povera ed emarginata, quella di una comunità che vive ai margini, che si arrangia con espedienti e si ciba di gamberi e granchi che popolano stagni paludosi ai margini delle grandi industrie della città. Hushpuppy è una bambina (deliziosa e splendidamente interpretata da una giovane attrice di 6 anni) che vive con il padre malato, la madre non c’è e tutta la loro vita è intrecciata con la comunità di Bathtub nella quale gli abitanti sono tutti strambi e perennemente ubriachi, che vivono tra prostituzione e piccoli reati. Hushpuppy ha dentro di se tutto il mondo e tutte le paure: la voglia di trovare sua mamma, il desiderio di salvare il papà dalla sua malattia, la paura di bestie immaginarie che a volte riempiono i suoi sogni e che la vogliono catturare. Il film è in bilico tra Huck Finn, fantasy story e crudele realtà di un luogo dove l’uragano Katrina farà i maggiori danni. Potrebbe alla fine essere tacciato di essere troppo buonista nei confronti di questi personaggi perché in fondo non è che ci sia così tanto di bello ad essere dei poveracci senza futuro e ai quali nessuno garantirà una vita priva di alcool e case di piacere, ma è estremamente romantico e commovente, io sto dalla loro parte.
Ecco che quindi dopo aver messo a vostra conoscenza la mia quarantena cinematografica, ritorno sul versante musicale e non è che la musica sia passata in secondo piano, è stata solo accantonata per una fruizione più intima e gli ascolti si sono spostati giocoforza verso una cupa versione di country, americana e rock. Brani che gli appassionati del Buscadero conosceranno benissimo e che però in questa playlist sono racchiusi uno dietro l’altro a completare un piccolo e a volte struggente affresco di uno stato d’animo, quello attuale, che lascia poco spazio nei confronti di gioia e ottimismo. Spero che tutto passerà, ma sono sicuro che questa situazione sarà uno spartiacque importante, probabilmente non nella società che ormai è avviata a una discesa sempre più pericolosa, di sicuro lo sarà dentro di me e nello spirito con il quale affronterò situazioni future.