MEMORIE DALLA QUARANTENA – L’ISOLA DELLE MUSICA
La mia domanda preferita è sempre stata “perché”. Non chi o quando, ma perché. La regina di tutte le domande, all’interno della quale convivono le efferate bestemmie e le preghiere, le riflessioni e gli inganni, le ponderate scelte e gli sbagli. Poi ci sono le non risposte. Quelle che tutti abbiamo in un’epoca come questa. Così inquieta, così incerta, fatta di tg mai visti e notizie che affondano nel cuore, di spiegazioni, dubbi, continua ricerca di colpevoli e innocenti, eroi e vittime.
È una strana sensazione quella che attraversa le nostre giornate, abbarbicata intorno a una quotidianità disarmante, che ci ha spogliati e ci ha reso piccoli, mai così bisognosi di contatto e vita. Senza alcun preavviso, costretti da un giorno all’altro a fare i conti con le misure della lentezza, il tempo si è preso tutto lo spazio che bramava, e non ha nemmeno chiesto il permesso. Abituati a vivere in viaggio su un Frecciarossa, oggi ci troviamo a scrutare il paesaggio da un finestrino di una vecchia carrozza di un treno a vapore.
In un disordine ordinato, c’è allora chi sopravvive tra laboratori culinari e approfonditi studi di economia domestica, manutenzioni ordinarie, straordinarie e pianificazioni dei lavori, istruzione parentale e corsi online di home fitness per scongiurare le insidie dei kili in agguato… per non parlare dei consumatori seriali di birre e caffè. Ma la musica, per molti di noi, è l’unica cosa che non cambia. La musica non ha mai smesso di suonare e, forse, per alcuni, ha cominciato a farlo più forte. La nostra garanzia, la nostra verità, che ora echeggia nella stanza attraverso suoni che si riempiono di attimi, di voci, postille, sfumature e ricordi, di pensieri che attraversano i solchi dei vinili e volumi che rimbombano nelle casse come in un intervallo sospeso nel nulla.
Facendosi accompagnare dalle circostanze, la scelta ricade ora sulle nuove compagnie, ora sul bisogno di certezze, così è concesso passare dalle argute atmosfere di un piacevole Singing For My Supper del camaleontico Early James (pupillo di Dan Auerbach, ultimamente sempre a caccia di giovani talenti), incastonato appunto fra pentole e fornelli in vista della cena coi bambini, alle note diffuse dal rock britannico dei Faces, che una piccola cassa bluetooth riproduce nel bel mezzo di un’attività di giardinaggio estremo e una partita a pallavolo improvvista. Ooh La La mi ha sempre dato la carica giusta.
Le occasioni di ascolto sono distribuite su due interi giri d’orologio e i sottofondi meno impegnativi si alternano a scelte più oculate, attente, riflessive. Conoscere, rinvenire, ricercare e lasciar fluire. E la curiosità mi porta verso un certo Chadwick Stokes & The Pintos, personaggio non poco conosciuto nella sua Boston, recensito sul numero di Buscadero del mese di Febbraio. Passato in cuffia durante la notte, il disco vola dalle arie leggiadre di una Giovanna D’Arco tutta femminista, a vigorosi folk punk con tamburi che galoppano a ritmi da cavalleria e quell’eccitante banjo bluegrass che mi fa uscire di testa… Un album dal piglio ardente, nostalgico al punto giusto da snodarsi attorno alle atmosfere di un ventennio, quello dei 60 e 70, senza disdegnare audaci contaminazioni moderne fatte di lussureggianti strati strumentali. Ma dalle parole di Stokes ricaviamo anche il monito del secolo: “Viviamo in un momento folle, un momento molto sconvolgente. Se non stiamo protestando significa che c’è un problema”.
In un trascorrere di ore dal passo che oggi può essere pesante e domani leggiadro, trovare la propria “nicchia sonora” diventa indispensabile, vitale. La musica si può scegliere. È una delle libertà che ci rimangono. Così ci è dato di abbinare l’energia dei Nine Below Zero di Live at The Marquee, alla potenza di Wilko Johnson e Roger Daltrey, facendole diventare, tra palle mediche, squat e piegamenti, la miglior colonna sonora per uno sfogo atletico da reclusione (sempre in casa s’intende, “i trasgressori saranno puniti!”) per poi abbandonarsi dopo cena alla bellezza confortante di Nina Simone, pensando che davvero ci vorrebbe … A Little Sugar In My Bowl, in quella tazza che è la vita.
Ma non tutti i giorni sono uguali, non nell’apparente monotonia di sfumature quotidiane invece percettibili, dove ogni istante può essere un regalo o una tortura, dipende dalla visione offerta dalla prospettiva, perché la paura del nulla e di un niente definitivo molesta i pensieri di molti. Nel consumare giorni pieni e giorni vuoti, forzatamente immersi in un lockdown fatto solo di “qui e ora”, allora è meglio riempire gli spazi vacanti con qualcosa di amico, che abbia la tenacia per sostenere i pensieri più cupi, riaccendere memorie, muovere un’ispirazione. Il mio momento preferito arriva a tarda sera, circondata da una pacifica e garbata solitudine. Saranno le luci soffuse o lo Chardonnay, ma il fascino di Face To Face riaccende una passione mai sopita, mettendo in luce la profonda bellezza di un John Lee Hooker venuto a mancare proprio quando stava registrando questo disco. Six Page Letter riesce a mostrarne tutta la dolcezza, insolita per la sua mitologica figura. Ci sono voluti più di due anni per dare il tocco finale al progetto, messo in piedi con una pletora di musicisti tutti speciali. Ma piuttosto che minare l’atmosfera, gli ospiti si rivelano discreti e rispettosi e ciò che porta costantemente in vita le canzoni è la consegna bruciante e appassionata del vecchio bluesman. Poi da qui nasce la “serata dedicata”, e non puoi fare a meno di riascoltare quel It Serve You Right To Suffer del 66 quando, attraverso la sua voce aspra e cruda, trasmetteva le emozioni di un uomo venuto dalle strade oscure della vita, riempite dalla ruvida sfacciataggine necessaria per sopravvivere negli angoli desolati del profondo sud.
La mia certezza, il mio rifugio, il mio blues… che in un tardo pomeriggio freddo e cupo, rincorre la musica selvaggia e martellante di Charles Caldwell, razza pura Mississippi, scuderia Fat Possum. Scariche elettriche ad alto voltaggio, voce potente e racconti di vita dissennata. I Know I Done You Wrong… riflessione piuttosto comune di questi tempi. Continuando a inseguire rauche e folli vibrazioni, infilo nel lettore un altro fuoriclasse: Hound Dog Taylor, prima con il disco di debutto assieme ai suoi The Houserockers, uno dei più grandi album di chitarra slide di tutti i tempi, poi con Release The Hound, a rievocare gli schizofrenici momenti live tra il 71 e il 75 del cane da caccia, quasi sempre ubriaco ma incandescente come una furia. Sulla scia di un affilato ditale di metallo, allora, recupero la slide aguzza di John Campbell. Howlin Mercy suona più intenso che mai e le urla di misericordia in uno sfibrante esorcismo blues, smembrano il diavolo di Tom Waits sulla torrida Down in the Hole, facendomi brindare alla vita eterna con un Rosso color sangue.
Con le letture non ce la faccio: dopo ore davanti a milioni di caratteri visualizzati su piccoli schermi e su testi scolastici, la mia vista deve riposare… troverà ristoro attraverso gli altri sensi. Può quindi diventare splendido bersi un caffè in giardino sulle note di Mrs. Potter Lullaby dei Counting Crows o lavorare l’impasto della pizza sulla poderosa performance di Leon Russel nel medley di Jumpin Jack Flash e Youngblood al Concerto per il Bangladesh di Harrison, mentre, a tarda sera, scivolare in un locale a Golden Beach vicino a quel 461 Ocean Boulevard dove Clapton si presentava ripulito nell’immagine e nel sound. Un disco in costante movimento, alimentato dai fantastici tamburi di Jamie Oldaker e dal basso di Carl Radle, già con lui nei Derek and The Dominos, che oscilla tra blues lenti e schiaffi slide, ballate country e perfino un inno hippie dedicato a semine quantomeno ambigue.
Ai declivi della notte, invece, può essere meraviglioso lasciarsi accarezzare dalla voce di Boz Scaggs e abbandonarsi alle languide melodie di Last Tango On 16th Street. Non rimane che sognare la vita che ci stava attorno, gli abbracci degli amici, i brindisi e gli affetti che adesso sembrano così lontani, scivolando sotto le coperte verso il chiarore del mattino.