MEMORIE DALLA QUARANTENA
Quando tutto è iniziato, ormai qualche mese fa, questa storia del Covid 19 aveva tutta l’aria di essere una di quelle cose astratte e lontane, terribili certo, ma che altrettanto terribilmente veniamo portati a sentire irrimediabilmente distanti, probabilmente assuefatti a qualsiasi orrore. Nessuno in quei giorni avrebbe potuto preventivare quello che poi sarebbe successo e che tutti voi ormai conoscete bene quanto me. L’esser messi di fronte all’estrema fragilità del sistema in cui viviamo, un sistema che da molti anni chiude volutamente gli occhi di fronte alle tante cose ingiuste che andrebbero cambiate (e la speranza, forse poco convinta, è che da tutto ciò si possa almeno apprendere una lezione); la messa in stand by delle attività di quasi l’intero pianeta; il tragico bollettino quotidiano che sciorina morti e nuovi malati quasi con freddezza; l’isolamento nel quale ci tocca vivere, sono tutte cose che hanno avuto, hanno e probabilmente in altre forme avranno, un impatto pesantissimo sulle nostre esistenze, le quali, nei casi più fortunati, sono state quantomeno costrette a riconfigurarsi secondo nuove modalità.
Il più evidente degli effetti collaterali, se così vogliamo dire, è che, come tantissimi, da un giorno all’altro mi sono ritrovato con un surplus di tempo libero. Lavorando in aeroporto, uno dei settori chiaramente tra i più compromessi da questa situazione, mi son ritrovato presto a casa, tanto che negli ultimi 40 giorni, di giornate lavorative ne ho avute solamente tre. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno – una pezza importante ce la mette fortunatamente la cassa integrazione – questo ha significato fin da subito potersi dedicare con maggiore assiduità del solito a passioni come la lettura, la visione di film, l’ascolto massiccio di musica, ma anche la scrittura o la sistemazione di tonnellate di foto accumulate nell’hard disk.
Certo, per uno abituato come me ad essere sempre in giro da qualche parte, a vedere anche tre/quattro concerti a settimana (e il mio pensiero va a tutti quanti lavorano nel settore della musica live e ai molti musicisti che traggono sostentamento quasi unicamente dal suonare dal vivo – resistete se potete, non vediamo tutti l’ora di tornare ad affollare i locali!) e a sentirsi un po’ ingabbiato fra quattro mura, ha significato un cambiamento radicale nelle abitudini ma, that’s it, non è che avessi molte alternative.
Non possedendo ormai da molti anni un televisore in casa, mi è stato abbastanza facile non cedere alla paranoia infliggendomi ore e ore di programmi basati sul coronavirus. Un po’ di Rai News visto on line, la lettura dei quotidiani e qualche articolo scovato in rete (vi consiglio la lettura di questo e questo, ad esempio) mi hanno permesso di tenermi sempre aggiornato, ma c’erano giorni in cui le notizie che arrivavano erano così penose che, per preservarmi, ho dovuto letteralmente abbandonarmi unicamente alle cose che più amo o a quattro chiacchiere con qualche amico/a in videochiamata.
Per abituarmi alla nuova situazione, nei primi giorni ho dovuto ricorrere alla lettura di uno scrittore che, fin dai tempi delle scuole medie, anche nei suoi libri più routinari, è sempre riuscito a portarmi via. Parlo di Stephen King, del quale ho letto tantissimo, ma per fortuna non tutto. Mi mancava ad esempio la trilogia poliziesca di Mr Mercedes, 1500 pagine in totale, che mi sono bevuto in una settimana, di sicuro non al vertice della sua produzione, ma stuzzicante quel tanto che basta per intrattenermi con un buon racconto di genere. Mi ci voleva qualcosa di leggero, prima di potermi imbarcare in letture un po’ più impegnative, tipo Tra le ceneri di questo pianeta di Eugene Thacker, libro di filosofia un tantinello apocalittica (è uno dei libri le cui teorie stanno alla base dei pensieri esposti nella prima stagione di True Detective), in cui vengono incrociati il pensiero di filosofi quali Kant o Schopenhauer con elementi di pop culture quali il Death Metal o i racconti dell’orrore, per proporre un percorso filosofico che si muove nell’esplorazione di ciò che è umano (cioé riferibile a una condizione antropocentrica) e ciò che non lo è (facendo una distinzione tra mondo e pianeta, analizzando il rapporto col divino, aprendo riflessioni sul discorso ecologico e anche… sul diffondersi di pandemie!), questo volendo fare una sintesi un po’ brutale. Qui e là un po’ astruso, ma con parecchi spunti su cui riflettere. Dopo di quello mi sono buttato sull’esperimento di Jennifer Egan Scatola Nera, un libro scritto ricorrendo a sequenze di frasi di 140 caratteri al massimo, ovvero il massimo consentito per i suoi post da Twitter (sicuramente curioso) e il mastodontico capolavoro di Chris Ware Building Stories, graphic novel divisa fra quattrordici diversi albi di formato e tipologia diversi, racchiusi in un elegantissimo cofanetto. Non esiste una traduzione italiana, ma se masticate un po’ l’inglese cercate di procuravelo perché è straordinario! Al momento invece sto leggendo Il Sussurro Del Mondo di Richard Powers, premio Pulitzer per la letteratura 2019. Ne ho letto finora poco più di un centinaio di pagine, ma promette benissimo.
Sul versante film, pur avendo l’abbonamento sia a Netflix che a Prime Video, recentemente ho riscoperto Mubi, decisamente più orientato al cinema d’autore. Lì mi sono goduto una bella rassegna dedicata al cinema del regista giapponese Yuzo Kawashima, i cui film offrono uno sguardo mai banale sul Giappone che usciva dalla Seconda Guerra Mondiale; ho visto/rivisto i primi film inglesi di John Schlesinger (menzione particolare per Darling); i capolavori di Joseph Losey Il Servo e L’incidente; un vecchio film di Rainer Werner Fassbinder che proprio mi mancava (Perché il Signor R è colto da follia improvvisa?) e un particolarissimo film sperimentale giapponese, Domains di Natsuka Kusano, faticoso per molti versi, ma parecchio intrigante per tutte le sue implicazioni metacinematografiche e per una prova attoriale superlativa. Questo per citarne alcuni, a cui aggiungerei, anche se non visti su Mubi, almeno due documentari musicali, Instrument di Jem Cohen (sui Fugazi) e Chasing Trane di John Scheinfeld (ovviamente su John Coltrane).
La qual cosa ci traghetta quindi verso i miei ascolti di queste giornate. Salvo rarissime eccezioni, si può dire che a casa mia lo stereo sia sempre acceso, quindi stando tutto il giorno a casa sono tantissime le cose che ho sentito con tutto questo tempo a disposizione. Non vi starò a elencare tutta la roba nuova che ho ascoltato “per lavoro”, un po’ perché ne leggerete sui prossimi Busca, un po’ perché se no non me la caverei più. Avere più tempo a disposizione, però, mi ha permesso di andare a riascoltare con calma cose che magari era da davvero tanto che non risentivo, seguendo percorsi umorali e non realmente logici. Vabbè, avendo visto i due film che vi ho citato, ovviamente mi son andato a risentire i Fugazi (per chi scrive una delle più grandi band di tutti i tempi, non solo per la musica, ma anche per via dell’attitudine), in particolare Red Medicine, l’album del quale il film testimonia la lavorazione, nel quale tra le tante fantastiche canzoni c’è Do You Love Me?, uno di quei pezzi capaci di darmi una vera scossa d’energia in qualsiasi momento; e ho dedicato una giornata a John Coltrane, tirando fuori il cofanetto della Impulse! The Classic Quartet, contenente tutte le incisioni in studio del grande sassofonista col suo noto quartetto, un fiume di capolavori a getto continuo e vera musica per l’anima.
A proposito di cofanetti, ne ho riesumati diversi: i quattro che la benemerita Numero Group ha dedicato all’opera omnia degli Unwound tanto per iniziare, grande band post-hardcore molto amata dagli appassionati del genere, che mi hanno impegnato per un paio di giorni; quello con tutti i singoli e le b-side che Cherry Red ha dedicato agli immortali Fall di Mark E. Smith (una vera bomba); Pulsating Dreams – The Epic Recordings dei Kaleidoscope, quelli americani, a me particolarmente cari nella loro fase più psichedelica, la prima; infine il magistrale Goodbye, Babylon, maxi boxset di sei CD racchiusi in una scatola di legno con registrazioni che vanno dal 1902 al 1960, con netta prevalenza di tracce degli anni 20 e 30. 135 canzoni e 25 sermoni: pre-war folk in tutte le sue possibili declinazioni, gospel, blues e tutto ciò che sta nel mezzo, in modo da onorare a modo mio la settimana di Pasqua. Tra le moltissime chicche, in mezzo c’è un brano di Washington Phillips che mi ha sempre commosso e che, sebbene inciso nel 1927, suona come un pezzo modernissimo ancora oggi!
Avendo da preparare un paio di interviste, a Stephin Merritt dei Magnetic Fields e alla cantautrice texana Jess Williamson, oltre ai loro ultimi lavori, sono andato a riascoltarmi un po’ di cose vecchie di entrambi. Val la pena menzionare per i primi, ancora una volta, quel favoloso campionario di pop tunes a tema amoroso che è 69 Love Songs, mentre della seconda mi sono concentrato sugli inizi più platealmente folk e country.
Per il resto sono andato a ruota libera, riprendendo in mano sia cose su cui periodicamente torno, che dischi che in effetti non riascoltavo da tantissimo. I miei gusti sono sempre stati parecchio vari, quindi mi è molto facile ritrovarmi nella visionarietà dei Sun City Girls e in un disco-mondo quale 330,003 Crossdressers From Beyond The Rig Veda o nell’incontro tra il sassofonista ethio-jazz Getatchew Mekuria e gli anarco-punk olandesi The Ex (Moa Anbessa è un album a dir poco esaltante!). Allo stesso tempo non ho visto nessuna contraddizione nel passare dal british-psych-folk dei Trees al livore newyorchese dei Cop Shoot Cop, mettendoci in mezzo un po’ di rock classico (John Hiatt, Graham Parker, il primo tramite Perfectly Good Guitars, il secondo con Struck By Lightnining) o di krautrock (i NEU del primo album).
E poi Murmur dei R.E.M. (band tirata in ballo anche dal disco blues che fecero come Hindu Love Gods con Warren Zevon, ottimo), il primo Grant Lee Buffalo, l’Americana distorta dei forse dimenticati Varnaline, gli amati Buffalo Tom di Big Red Letter Day (anche se penso che il loro disco migliore sia Let Me Come Over), i selvaggi Fuzz di Ty Segall, l’ultimo Waxahatchee, tra i dischi recenti uno di quelli che sto ascoltando di più (e in Can’t Do Much ridona vita per l’annesima volta all’eterno riff di Sweet Jane).
Nella settimana in cui sono scomparsi due grandissimi quali John Prine e Hal Willner non potevo esimermi poi dal dedicare del tempo anche a loro: del primo ho ascoltato a ripetizione l’esordio, il secondo l’ho ricordato tornando su uno dei dischi di Lou Reed da lui prodotti, tra l’altro forse il più bello della fase conclusiva di carriera del rocker di New York, Ecstasy.
Infine, girando su internet, mi sono imbattuto in un video in cui Angel Olsen provava a interpretare una canzone da lei parecchio amata: Il Cielo In Una Stanza. Inutile girarci attorno, è una delle più belle canzoni della musica italiana, un classico capace di commuovere le pietre, nonostante la si sia ascoltata milioni di volte e in mille modi diversi. L’originale di Gino Paoli è splendida, ma cosa può, anche quella, in confronto alla versione cantata da Mina, la cui voce è una colata di miele direttamente sul cuore? In questi giorni in cui il cielo che ci troviamo a contemplare è proprio quello delle nostre stanze, in cui è solo con la mente, la fantasia e l’amore che possiamo viaggiare e superare ogni confine, questa canzone rifulge assumendo forse nuovi, inediti significati. Se anche non fosse così, sempre un grandissimo pezzo rimane. Nell’attesa di poterci riabbracciare e ricominciare a vivere pienamente, chissà, magari in un mondo più consapevole e solidale. Provare a immaginarselo non costa nulla e può far bene alla mente e al cuore.