MEMORIE DALLA QUARANTENA – WE’LL MEET AGAIN
Credo tutto sommato di essere un intruso in questa rubrica perché dai primi momenti della pandemia non ho smesso di uscire né di lavorare (ma non sono un medico) e quindi dall’inizio del lockdown, che potremmo chiamare «isolamento» senza nulla togliere alla drammaticità degli eventi in corso, la mia percezione delle giornate, delle ore e dei minuti è stata senz’altro diversa da quella comune alla maggior parte degli italiani, e soprattutto di quelli residenti nelle regioni del (mio) settentrione. Non ho avuto, insomma, “più tempo” a disposizione per coltivare o riaccendere passioni il cui esercizio, invece, mi è stato ancora una volta d’aiuto nel respingere segnali di eccessivo sconforto o scivolamenti verso lo scoraggiarsi. Ho insomma continuato a fare quello che facevo prima, sebbene appesantito, data la situazione e il perpetuo, avvilente rincorrersi di norme, divieti, sanzioni, decreti e ipotesi per quanto mi riguarda lontanissimi dal buon senso (nonché lesivi, a fronte di risultati diagnostici e terapeutici assolutamente sconclusionati, di molte, troppe libertà personali), da un indiscutibile incremento dello sforzo.
Però, non potendo procurarmi nuova musica e conservando una certa refrattarietà agli ascolti in rete, ho avuto l’occasione di approfondire certi titoli magari poco considerati al primo incontro, oppure semplicemente dimenticati, con l’attenzione dovuta. E nessuno, forse, mi ha trasmesso più emozioni del quintuplo cofanetto da Smog Veil dedicato, lo scorso anno, a Peter Laughner, chitarrista, autore, punk-rocker e a volte giornalista (in stile Lester Bangs) di Bay Village, Ohio, morto giovanissimo (a 24 anni, per una pancreatite resa letale dal consumo smodato di droghe), noto ai più per aver fatto parte dei Rocket From The Tombs e aver fondato, pur essendone uscito quasi subito, i Pere Ubu di David Thomas. Il box si intitola, appunto, Peter Laughner e mi sembra bellissimo per svariate ragioni, non ultimo il fatto di scaturire da un progetto di ricerca d’archivio che in futuro, per tanti carneadi cresciuti nell’epoca della grande bulimia digitale (durante la quale si pubblica tutto, e ben poco di veramente necessario), sarà impossibile per evidente mancanza di contenuti. Dagli anni ’70 a oggi, viceversa, è stato possibile ricostruire con amore e scrupolosa precisione la parabola di un artista che, in vita, non aveva pubblicato nulla, e farne scoprire, anche a chi non l’avesse mai sentito nominare, la profonda vena dylaniana, la conoscenza della tradizione folk, l’originalità di una visione in cui country e punk diventavano i poli opposti ma complementari del medesimo temperamento, l’apprezzamento per Jimi Hendrix, Lovin’ Spoonful, Modern Lovers, Mott The Hoople e soprattutto Lou Reed. La versione di Rock & Roll (dai Velvet Undergound del quarto album) all’inizio del secondo CD, eseguita da Laughner con i suoi Cinderella Backstreet — un nome, un programma — il 24 giugno del 1973 al The Cellar (nella località balneare di Sandusky, Ohio), vale da sola il prezzo dell’opera: non solo perché il titolare e il suo gruppo la rendono affilata, rockista, trascinante e romantica, a un certo punto velocizzandone l’inconfondibile riff e mandando la sezione ritmica in levare come se fossero dei Police ante-litteram (ma più sporchi e cattivi), quanto perché tutto, nel pezzo, concorre alla definizione del r’n’r quale unico santuario, intellettuale e di stomaco, degli Stati Uniti d’America, loro religione civile praticata agli angoli delle strade come da noi il calcio nei vecchi oratori, l’unica e la più democratica delle rivoluzioni culturali di tutto il «secolo breve» del ‘900. «Questa canzone era il nostro inno», dice Laughner, rivolto al pubblico, un attimo prima di interpretarla, «e spero possa diventare anche il vostro. Possa il rock and roll salvarvi la vita come l’ha salvata a noi», e nella limitata distanza tra la genesi del brano in sé (venuto a galla nel ’69 anche se inciso ufficialmente solo un anno più tardi) e la rilettura laughneriana c’è tutta la «brevità» indomabile del secolo scorso e la sua corsa a perdifiato verso orizzonti nuovi, inesplorati e selvaggi, tutta l’urgenza liberatoria, sfrenata, fisica e creativa del rock stesso.
Con altrettanto piacere ho recuperato See You In Miami (2018) di Charlie Pickett, dalla Florida, vecchia conoscenza dei bassifondi del rock chitarristico degli anni ’80. Nella sua discografia, peraltro non cospicua, non mi stancherò mai di consigliare l’esplosivo Live At The Button (1982), dove si trovano il suo brano più celebre (If This Is Love, Can I Get My Money Back?, scatenata) e riletture al fulmicotone di Freddy Cannon e Flamin’ Groovies, ma anche l’album poc’anzi citato, malgrado sia stato accolto da una grossolana indifferenza, saprà tuttavia mandare in estasi i cultori degli Stones (non sentivo le sei corde ringhiare in questo modo forse dai tempi dei Del Fuegos) e del suono ruvido e febbricitante delle bar-band del Midwest (attenzione al medley tra Four Chambered Heart e Marquee Moon, la prima un plagio sublime, in pratica, della That’s What You Always Say dei Dream Syndicate, la seconda un frammento convulso e psicotico dall’omonimo classico dei Television).
Mi hanno confortato anche il sax tenore misticheggiante e spiritualista, dalle sfumature tra soul e jazz, di Charles Lloyd, e in particolare il doppio Manhattan Stories (2014), registrato a New York nel 1965, con un quartetto in stato di grazia (Gábor Szabó alla chitarra, Pete La Roca ai tamburi, Ron Carter al basso), e concluso da una monumentale versione di Dream Weaver; e poi la bella ristampa, anch’essa raddoppiata (provvede la britannica Cherry Red), di una delizia minore dei secondi ’70, Hits Of “77”, antologia dei successi reggae di quell’anno, un tempo curata da Sonia Pottinger e da allora irreperibile malgrado contenesse il roots-reggae più divertente, il dub più narcotico, i toasting più acrobatici e i ritmi più appiccicosi e irresistibilmente cantilenanti all’epoca reperibili tra Kingston e dintorni.
Guardo pochissimi film, da un lato perché proprio non riesco a digerire l’esperienza vicaria dello streaming (e sempre più mi rendo conto di quale importanza rivestisse, nel mio idolatrare senza ritegno il cinema, il rituale della visione in sala), e dall’altro perché il repentino moltiplicarsi dell’offerta, sia detto con la massima gratitudine per chi ha pensato di alleviare la quarantena condividendo una quantità indescrivibile di materiali di catalogo, in assenza di una guida, di indicazioni e note derivanti dall’esercizio del pensiero critico, finisce per significare poco: attingo comunque molto volentieri agli archivi della Cineteca di Bologna e della Cineteca di Milano, che stanno proponendo titoli altrimenti invisibili o pressoché irreperibili seguendo, almeno in parte, percorsi tematici di grande interesse.
Leggo tutto ciò che trovo, come sempre, e tra un ripasso di Gianni Celati, un Joseph Wambaugh d’annata — I Nuovi Centurioni (The New Centurions, 1971, da noi per le Edizioni di Novissima la stagione dopo), di poco inferiore al suo capolavoro, I Ragazzi Del Coro (The Choirboys, 1975, oggi per i tipi di Einaudi) — divorato in due sere e un lento, metodico inabissarsi nelle mille e passa pagine dei racconti di Kurt Vonnegut, ho accolto con entusiasmo l’uscita, in edicola, della collana Il grande Magnus (RCS Mediagroup), splendidi volumi cartonati e dall’apparato editoriale inappuntabile sull’arte di Roberto Raviola, il grande disegnatore (e spesso “autore” tout-court) di Kriminal, Satanik, Alan Ford, Lo Sconosciuto, Maxmagnus, La Compagnia della Forca, Necron, Milady nel 3000 e moltissimi altri.
Senza mancare di rispetto a James Ellroy, a suo modo un gigante, ogni tanto penso che i suoi romanzi, senza quelli di Wambaugh (molto più lirico, sì, ma anche, all’occorrenza, più crudo e disperato), non esisterebbero: per questo sul podio dei miei scrittori preferiti in ambito poliziesco, se vogliamo chiamarlo così, ci sono, a pari merito, Joseph Wambaugh (per il dolore, il cameratismo e la voragine della fragilità umana), James Crumley (per la cocaina, le sigarette e gli alcolici, non necessariamente in quest’ordine) e Stuart M. Kaminsky (nel ciclo di Toby Peters, per l’ironia affettuosa e la simpatia agrodolce verso i perdenti a vita).
Ogni tanto penso anche a Magnus come al più grande fumettista italiano di sempre, salvo poi sognarmi Hugo Pratt, Bonvi, il Ken Parker di Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo, l’Ottag di Giorgio Rebuffi, e rimettere quindi in discussione il podio; poi mi viene da pensare a Ettore Sottsass, pure lui tra i miei preferiti (assieme Carlo Scarpa, Gio Ponti, Enzo Mari e Osvaldo Borsani) in termini di architettura e design, e a quale scrittore incredibile sia stato, a quanto talento potesse gravitare nell’anima di un singolo individuo capace di dare vita a un’autobiografia paradossale, scontrosa, aggressiva e nondimeno stracolma di piccole, intime illuminazioni come Scritto Di Notte (2010), oppure di mettere insieme le note e gli appunti, le riflessioni e le improvvisazioni per macchina da scrivere di Molto Difficile Da Dire (2019) senza mai apparire ridondante o gratuito (provate a leggere i testi di Sottsass, sarà un’esperienza rivelatoria soprattutto per chi si interessi di letteratura beat).
E penso anche che mi piacerebbe sapere o poter finire, in questo momento, nel bel mezzo di una segregazione universale, un simile elenco di stupidate come Keith Jarrett finisce i suoi concerti, per i quali richiede sì uno sforzo di concentrazione assoluta (censurandone talvolta, in modo fin troppo severo, i momentanei e fisiologici allentamenti) nonostante, in fondo, li concluda sempre con una rivisitazione di Over The Rainbow — la ballata nel 1939 composta da Harold Arlan e Yip Harburg per la Judy Garland del Mago Di Oz (The Wizard Of Oz) diretto da Victor Fleming — all’insegna del virtuosismo e della dolcezza, perché a un certo punto bisogna mandare la gente a casa tranquilla, bisogna regalare qualche carezza, bisogna ribadire come, senza hashtag, «andrà tutto bene» (e sentite cos’è la parafrasi del brano registrata a Tokyo, nel 1984, e reperibile in una vecchia VHS, targata Sony, dal titolo Last Solo).
Mi piacerebbe ma non so arrivare a tanto, quindi spero solo le puntate di Jailhouse Rock, in larga parte composte dai motivi per cui è stato bello essere vivi, contengano stimoli sufficienti a non perdere la voglia, nonostante tutto, di vivere ancora.