Nel 1967, Il Laureato, seconda regia per il grande schermo del cineasta Mike Nichols, irrompe con una ventata di anticonformismo, spirito libertario e visione contestatrice nel panorama cinematografico dell’epoca, di fatto anticipando quella rivoluzione di stili e soggetti che, nel decennio successivo, avrebbe preso il nome di «New Hollywood». Il successo della pellicola, però, è da attribuirsi alla direzione di Nichols, già un veterano di Broadway nonostante la giovane età, come alle canzoni di Simon & Garfunkel presenti nella colonna sonora, a dir poco perfette nel cogliere e raffigurare i disagi, il senso di smarrimento, la voglia di fuga dei giovani americani del tempo.
Nato Mikhail Igor Peschowsky nella Berlino del 6 novembre 1931, Mike Nichols raggiunse giovanissimo New York City, nella cui Manhattan è morto, all’età di 83 anni, il 19 novembre dello scorso anno, per ricongiungersi al padre. Studente svogliato, ma grande appassionato d’arte, cavalli e teatro, all’Università di Chicago conobbe i saggi di Susan Sontag, i corsi di recitazione di Lee Strasberg e l’umorismo tagliente della futura collega Elaine May, alla quale si unì, nel 1958, per dare vita alla coppia comica Nichols & May. Grandi fustigatori del perbenismo di certa borghesia americana, i due, antesignani dei più celebrati tra gli stand-up comedian, anticiparono l’ironia nevrotica dei vari Woody Allen, David Letterman, Steve Martin e Bill Murray, e restarono assieme fino al 1962, allorché Nichols, impegnatissimo con le proprie regie teatrali (era nel frattempo diventato, grazie agli allestimenti dei musical di Sheldon Hamick, delle commedie albioniche di Oscar Wilde e di quelle newyorchesi di Neil Simon, uno dei mestieranti più richiesti sulla piazza), decise di cedere il passo.
Malgrado il comprensibile ottimismo nei confronti del rinnovato percorso professionale, di certo Nichols non avrebbe potuto immaginare quale successo avrebbe salutato i suoi primi passi nel mondo del cinema. Se il suo film d’esordio Chi Ha Paura Di Virginia Woolf? (Who’s Afraid Of Virginia Woolf?, 1966), interpretato dai litigiosissimi, nonché magnifici, Elizabeth Taylor e Richard Burton (coniugi nella vita e sul set), ottenne un discreto riscontro di pubblico, l’opera seconda, che fruttò a Nichols un Oscar per la migliore regia, si trasformò addirittura in uno dei dieci titoli più visti dell’intera storia del cinema. Tale affermazione, per il regista, significò soprattutto potersi permettere almeno due lavori – la satira anti-militarista Comma 22 (Catch-22, 1970) e la pochade dolceamara Conoscenza Carnale (Carnal Knowledge, 1968) – altrettanto originali e personali, in qualche modo duri, non riconciliati e provvisti di un’amarezza e di uno spirito corrosivo forse impensabili al giorno d’oggi, ancora moderni benché la sua carriera di cineasta, negli anni a venire, si sia poi avvitata in una traiettoria oscillante e diseguale, contrassegnata in pari misura da pellicole di solida fattura e diversi flop grossolani.
Tuttavia, non avesse girato altro che i suoi primi quattro film, Nichols meriterebbe comunque un posto di primo piano nella galleria della settima arte, perché con quei lungometraggi seppe cogliere con esattezza e malinconia irripetibili l’ipocrisia della società e il desiderio di libertà, di una battuta caustica, di un sovvertimento delle abitudini dei suoi figli più giovani, irrequieti, arruffati. È anche grazie ai film di Mike Nichols, alla loro capacità di essere adulti e giocosi nello stesso istante, se la New Hollywood degli anni ’70 – quella di Martin Scorsese, Francis Coppola, William Friedkin, Robert Altman, Peter Bogdanovich etc. – è poi riuscita a stravolgere con la carica di un rullo compressore temi, canoni e fisime del cinema americano. È anche grazie a lui se il cinema statunitense di quegli anni è riuscito a ragionare su se stesso e sulle proprie convenzioni, diventando, per un decennio almeno, un’oasi di cultura, inquietudine, rivendicazioni politiche e modernità dove tutto, ma proprio tutto, era possibile. Naturalmente, ciò non sarebbe stato possibile se, per una fortunata serie di coincidenze, un giovane laureato del Williams College (Massachussets), un certo Charles Webb, non avesse raccontato parte della sua biografia in un libro scritto al mero scopo di sbarcare il lunario, se i cambiamenti sociali degli anni ’60 non avessero reso i ventenni d’America all’improvviso incerti, riguardo al proprio futuro, e impazienti, nella volontà di uscire dalle gabbie della famiglia e dei lavori preconfezionati. Se, infine, non ci fosse stata un’intera, nuova progenie di registi pronti a intercettare le vibrazioni della metamorfosi in atto per trasferirla su pellicola. Uno dei più abili fu, appunto, Mike Nichols, perfetto nel dipingere il ritratto di una gioventù confusa, apprensiva e in qualche modo abbagliata, non solo per metafora, dall’ipocrisia delle generazioni precedenti, alle quali non dispiaceva (e probabilmente non dispiace) indulgere nel vizio a patto di mantenere intatti conformismo e rispettabilità di facciata. Una specie di Bildungsroman, insomma, di racconto di formazione (in America si dice coming of age) in cui la crescita – la maturità – si guadagnava attraverso la ribellione. Quel film si intitolava Il Laureato.
Il soggetto del Laureato è molto semplice. Benjamin Braddock, neolaureato WASP (bianco anglosassone e protestante) in una prestigiosa università della East Coast, sublima la propria crisi d’identità diventando l’amante della moglie del socio di suo padre, Mrs. Robinson, una signora borghese annoiata e viziata. Finché non ne conosce la figlia Elaine, se ne innamora e, nonostante l’opposizione della madre e della famiglia di lei, riesce a portarla con sé verso un domani incerto, imperfetto e pieno d’incognite ma una volta tanto privo dei vincoli sociali imposti dai genitori.
Per niente scontata, invece, fu la scelta di assegnare il ruolo principale a un attore ebreo allora sconosciuto e nemmeno troppo avvenente di nome Dustin Hoffman, o la decisione di affidare all’italoamericana Anne Bancroft (all’anagrafe Anna Maria Luisa Italiano), attrice all’epoca nota per ruoli dalle forti tinte drammatiche, il personaggio della più attempata seduttrice. Benché Nichols avesse considerato altre candidature per entrambi i ruoli, Doris Day (o Jeanne Moreau) per quello femminile e Robert Redford (o Warren Beatty, alle prese con un altro film culto dei giovani di fine ’60, Gangster Story, biopic su Bonnie Parker e Clyde Barrow diretto da Arthur Penn), il casting quasi forzato di Bancroft e Hoffman, nella sua imprevedibilità, si rivelò del tutto coerente con le istanze libertarie della pellicola, consentendo altresì una totale identificazione tra attori e personaggi.
La decisa contrapposizione tra Bancroft e Hoffman, nella vita reale più vicini, in senso anagrafico, di quanto prevedesse la sceneggiatura (29 anni lui, e 35 lei, in luogo degli originari 21 e 42), finì anzi per conferire forza, di riflesso, agli altri dualismi sui quali è costruito il perfetto meccanismo narrativo del film, ossia il confronto tra la cultura materialista della borghesia di mezz’età e la matrice idealista della gioventù, tra le due figure femminili, tra i diversi aspetti del carattere di Benjamin (ondivago eppure intenzionato a impegnarsi). In questo modo, riuscendo a parlare direttamente all’insoddisfazione (giovanile e non solo) verso i luoghi comuni della middle-classe alla frustrazione generata dall’inasprirsi della guerra in Vietnam, Il Laureato divenne uno dei film più simbolici e incisivi del ’68, uno dei film più amati da chi, lontano anni luce dal cinismo e dall’etica quantomeno discutibile di alcune famiglie in apparenza irreprensibili, non seppe fare a meno di cercare la propria strada anche a costo di amarezze, errori, incomprensioni, fallimenti. Il Laureato anticipò le parole di Jerry Rubin, attivista, sindacalista e amico di Abbie Hoffman, famoso per la frase Don’t trust anyone over 30 («Non fidarti di nessuno con più di trent’anni», poi modificata in Don’t trust anyone under 50, «Non fidarti di nessuno al di sotto dei cinquant’anni», ma questa è un’altra storia…), e lo fece con stile moderno e nervoso, senz’altro influenzato dalla nouvelle vague francese e reso indimenticabile dalla fotografia granulosa e realistica di Robert Surtees (e dall’uso intensivo, non così frequente in quel periodo, della mdp a mano), capace di catturare nelle corse sulle autostrade della California del protagonista (a bordo di un’iconica Alfa Romeo Duetto) i sogni di emancipazione di milioni di ragazzi americani e europei. Nichols e i suoi collaboratori si tolsero la soddisfazione di sperimentare parecchio, per esempio permettendosi di girare in widescreen le scene in cui Benjamin è in piscina o all’aeroporto (in modo da “schiacciare” il profilo del singolo, turbato e depresso, nella vastità fredda delle scenografie), oppure ritagliando Mrs. Robinson negli angoli dell’immagine (come se Benjamin la vedesse nei frammenti di una rivista), ma riuscirono a rimanere al contempo freschi e popolari.
La forza del film continua a risiedere non, come qualche buontempone ha scritto, nel fatto di prefigurare le commedie per adolescenti a sfondo sessuale (davvero nulla a che spartire, e non per pregiudizio negativo nei confronti di queste), ma nella dolente espressività con cui scontorna figure del disagio e della vulnerabilità. Persino Mrs. Robinson, come notato dal decano dei critici americani Roger Ebert in una recensione scritta dopo essere tornato sul film a quasi quarant’anni di distanza, finisce per risultare, nella sua tristezza subliminale, nella sua completa assenza di aspettative, più fragile e dolorosa dello stesso Benjamin, forse addirittura più vera, e questo è uno degli inconfutabili segnali di attualità della pellicola.
Mike Nichols aveva ascoltato, rimanendone impressionato, il terzo album di Simon & Garfunkel, Parsley, Sage, Rosemary And Thyme (1966). Organizzò un incontro con il duo e con il produttore Clive Davis, allo scopo di presentare la sceneggiatura, ma vista l’iniziale riluttanza di Paul Simon i quattro convennero solo sull’opportunità di selezionare tre brani dal repertorio della coppia e commissionarne almeno uno del tutto inedito. Simon ne scrisse due, Punky’s Dilemmae Overs (sarebbero finite entrambe sul quarto Bookends [1968]), non troppo gradite da Nichols, il quale, del resto, legò in maniera fraterna col più accomodante Art Garfunkel (qualche anno dopo nel cast di Conoscenza Carnale). Piccato, Simon arrivò in pratica alla fase di post-produzione senza aver composto nulla di definitivo. Nonostante questo, anche in ragione delle centinaia di migliaia di dollari già intascati dai finanziatori della pellicola, si presentò da Nichols strimpellando i versi embrionali di un nuovo brano e presentandoli come «non attinenti al film… solo una piccola cosa su Joe DiMaggio, la signora Roosevelt e i tempi andati». Nichols, però, colse subito la potenziale hit e volle inserire a tutti i costi il pezzo, reintitolato Mrs. Robinson, nello score del film. Sicché, all’interno del Laureato apparvero il delicato tema autunnale per clavicembalo e chitarra acustica di Scarborough Fair / Canticle, i due minuti di poesia unplugged dell’eterea April Come She Will, il plumbeo folk-rock elettrificato della già notissima The Sound Of Silence e il delizioso beat in chiave folkie e byrdsiana di Mrs. Robinson, mentre il resto della colonna vene completato, a suon di lievi foxtrot e incalzanti sonagli cubani, dall’esperto Dave Grusin, pianista jazz celeberrimo per alcuni discutibili esperimenti fusion nervosi e sincopati (risalenti soprattutto ai ’70) sebbene, in realtà, particolarmente a suo agio nella sonorizzazione di varie pellicole (su tutte quella, molto spassosa, di Tootsie, nel 1982, e, nove anni prima, quella d’ineffabile malinconia del magnifico Gli Amici Di Eddie Coyle). Anche in questo caso, la sintonia tra gli umori del film e le parole e i suoni delle canzoni si rivelò così efficace, spontanea e accessibile da generare un immediato caso discografico.
Il disco contenente la colonna sonora del Laureato, inizialmente non previsto, venne dato alle stampe nei primi mesi del ’68 per accontentare le numerose richieste degli ascoltatori e fu affidato alla supervisione del produttore Teo Macero (Miles Davis, Stan Getz, Dave Brubeck, Tony Bennett, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Thelonious Monk etc.). Costui, da vecchia volpe, utilizzò, nel disco, le edit dei brani come ascoltabili e ascoltate nel film, ossia sfumate, non integrali, in modo da non nuocere a un eventuale, futuro uso da parte di Simon & Garfunkel, che difatti avrebbero sistemato Mrs. Robinson sull’imminente Bookends, a tutt’oggi l’unico album dove se ne possa ascoltare la versione intera. Eppure The Graduate – Original Soundtrack finì lo stesso per spopolare ovunque, scalzando il White Album dei Beatles dalla vetta delle classifiche e diventando, in tutto il mondo, uno dei best-seller dell’anno. Del resto, un po’ come avrebbe fatto in seguito Martin Scorsese, Mike Nichols aveva scelto di impiegare le canzoni del duo non alla stregua di un banale accompagnamento per le immagini (abitudine purtroppo ancora oggi invalsa), ma quali contrappunti dialettici al filo della narrazione, affinché i testi di Paul Simon potessero interloquire direttamente con l’interiorità dei personaggi del film. E le parole di Simon, il toccante saggio sull’assenza di partecipazione e contatto umano formulato in The Sound Of Silence («Le persone s’inginocchiarono e pregarono / davanti al dio al neon di loro creazione / E l’insegna illuminò il suo messaggio / e le parole che lo componevano / E il messaggio era: “Le parole dei profeti / sono scritte sui muri della metropolitana / negli ingressi dei palazzi, / e diventano sussurro nel suono del silenzio»), l’evocazione d’innocenza perduta, simboleggiata da un campione di baseball, in Mrs. Robinson («Dove sei finito, Joe Di Maggio? / Un’intera nazione rivolge il suo sguardo solitario su di te / Che dici, Signora Robinson? / Joltin’ Joe ha lasciato, se n’è andato»), con quei cori – un omaggio ai Beatles di I Am The Walrus– solo in apparenza spensierati, impressionarono una moltitudine di giovani a loro volta bisognosi di guardarsi dentro e trovare risposte nuove, diverse da quelle elaborate per loro da una società borghese e farisea.
Ironia della sorte, al momento di registrare la colonna sonora del Laureato, di Mrs. Robinson (l’ha rivelato Art Garfunkel in un’intervista contenuta nell’ultima edizione in dvd della pellicola) Paul Simon aveva pronte nient’altro che le poche strofe udibili durante il film: il testo fu allungato e la canzone completata, e di nuovo registrata dalla prima all’ultima nota, solo quando l’opera di Nichols divenne un successo di portata internazionale.
Tra le numerose strenne natalizie confezionate quest’anno dalla Sony/Legacy, il nuovo cofanetto sull’opera omnia di Simon & Garfunkel, The Complete Albums Collection, può apparire una delle più pretestuose. In fondo c’era già il più economico The Collection (2002), contenente i cinque album di studio ufficiali e il dvd del famosissimo The Concert In Central Park (1982), a supplire, in modo egregio, a qualsiasi pretesa antologica. Il box attuale, tuttavia, pur sprovvisto del dvd, contiene le prime rimasterizzazioni mai effettuate sul citato Concert e sulla colonna sonora del Laureato, più il vendutissimo Greatest Hits del 1972 (con quattro brani dal vivo all’epoca inediti) e i live Old Friends: Live On Stage (2003), doppia testimonianza della reunion nel cui tour i nostri portarono in viaggio con sé i maestri Everly Brothers, l’acustico Live In New York City, 1967 (2002) e Live 1969 (2008), stupendo concerto dapprincipio disponibile solo presso le caffetterie Starbucks e poi accorpato alla tripla edizione del quarantennale di Bridge Over Troubled Water.
Sebbene l’operazione si rivolga, com’è ovvio, agli ammiratori incalliti, circa 5 € a CD (per portare a casa tutti e 12 i dischi della raccolta dovreste spendere poco più di sessanta euro) non sono poi molti di fronte all’opportunità di accedere, nella sua completezza, a uno dei repertori più significativi di tutta la musica popolare del ‘900, alla prima fase di carriera (ancora migliore la successiva, da solista) di Paul Simon, per chi scrive uno dei cinque massimi autori di canzoni di sempre.
Esordienti sul finire dei ’50 col tremendo nom de plume di Tom & Jerry, Paul Simon e Art Garfunkel (soprano di bella presenza con il compito di rendere più introspettivi e classicheggianti i brani del duo) adattarono la poetica folkie della tradizione anglo-irlandese al r’n’r domestico, alla pulizia morale e alle straordinarie armonie vocali degli ispiratori Everly Brothers. In pratica, con i loro melanconici ritratti di inquietudine generazionale, diedero voce alle ansie e all’irrequietezza dei giovani americani con la stessa efficacia con cui Bob Dylan, ricorrendo a enfasi visionaria e logorrea verbale, ne aveva emancipato il flusso di coscienza interiore.
Il loro esordio, Wednesday Morning, 3AM (1964), fu un disco folk come tanti altri, ma grazie al produttore Tom Wilson e al trattamento elettrico usato da questi per rendere più appetibili i loro pezzi, divennero delle star. Nonostante già Sounds Of Silence (1966) tagliasse folk-rock e spezzoni di ballate elettriche alla maniera di Dylan, seppure in modo molto più intimo e intellettuale (perché mediato dalle trepidazioni newyorchesi di Simon), la perfezione formale arrivò solo grazie alle sperimentazioni romantiche dell’elaborato Parsley, Sage, Rosemary & Thyme, al surrealismo urbano e nervoso di Bookends, al gospel ricercatissimo di Bridge Over Troubled Water (dieci milioni di copie vendute). Quando, all’inizio dei Settanta, le strade dei due si divisero, fu chiaro da subito chi, nella coppia, fosse il talento compositivo e chi il (validissimo) interprete in cerca di una buona canzone: se Paul Simon, infatti, oltre a intraprendere un viaggio ancora in corso attraverso i ritmi e il folklore dei paesi esotici, mantenne intatto il successo della vecchia ragione sociale, Art Garfunkel scivolò in un percorso, fatto di standard, oldies e anticaglie assortite, via sempre meno interessante (anche se il primo Angel Clare [1973], con brani di Jimmy Webb, Randy Newman e Van Morrison, e le chitarre di Jerry Garcia e JJ Cale, andrebbe senz’altro recuperato).
La loro storia, però, a dimostrazione di quanto entrambi avessero saputo incidere nell’immaginario degli adolescenti d’America, rimase a suo modo viva, sognata, inseguita, al punto da rendere il loro “ricongiungimento” del 1981 – un concerto di beneficenza per la manutenzione del newyorchese Central Park poi foriero dell’omonimo album dal vivo – un affare da 500’000 spettatori. In The Complete Albums Collection trovate la versione integrale di questa storia (con i primi tre album finalmente presentati nei loro mix originali), importante – certo – perché creata da musicisti in grado di raggiungere estremi talvolta irripetibili di complessità, raffinatezza, innovazione e azzardo stilistico pur partendo da basi folk spesso elementari. Ma importante soprattutto perché, come scrisse James Taylor in un vecchio articolo per Rolling Stone (in cui paragonava la duttilità canora di Garfunkel a quella di Louis Armstrong), Simon & Garfunkel regalarono alla musica un qualcosa di fondamentale: «regalarono loro stessi». Regalarono, insomma, la possibilità di identificarsi a intere generazioni ansiose di trovare nella musica e nell’arte una motivazione per non soccombere all’aridità del mondo contemporaneo. Davanti a questo regalo, anche quasi cinquant’anni dopo, si possono forse criticare alcuni dettagli, ma non si può non restare ammirati per la sua capacità di essere sempre al passo coi tempi. E assaporarne, ancora una volta, la splendida compagnia.
IL LAUREATO (The Graduate)
Mike Nichols – USA, 1967
Embassy Pictures/United Artists
****
SIMON & GARFUNKEL
DAVE GRUSIN
The Graduate – Original Soundtrack
1968, Columbia Masterworks
***½
SIMON & GARFUNKEL
The Complete Albums Collection
12CD, Sony/Legacy
****