Quando arrivo nel cortile del Castello Sforzesco di Milano, Marco Fracasia sta terminando il suo set e pertanto non molto posso dire della sua performance. Autore al momento di un paio di EP pubblicati da 42 Records, orientati a una svagata canzone d’autore indie pop, il giovane musicista torinese, accompagnato qui dalla sua band, s’è preso il compito di aprire la serata quando la temperatura è ancora a dir poco rovente e il sole è appena sparito dietro i torrioni del castello. Peccato esserselo perso, ma ad arrivare prima non ce l’ho fatta.
Quello che comunque si nota subito, a gettare lo sguardo nell’ampio spazio davanti al palco, dove sono ordinate le sedie, è che stasera di gente che ha sfidato caldo e zanzare ce ne sono davvero parecchie, tanto che di posti vuoti si fa una certa fatica a trovarne. Difficile dire se il grosso del pubblico sia stato richiamato dalla singola fama dei vari componenti degli I Hate My Village o se sia la proposta in sé della band ad aver conquistato con soli due album i favori di un pubblico così numeroso. Sono propenso a pensare che il fatto che siano composti da musicisti presenti in alcune delle band più amate del panorama italiano degli ultimi vent’anni abbia contribuito, ma che poi sia stata proprio la loro musica ritmata e coinvolgente a far sì che non rimanessero faccenda per pochi cultori.
Nel caso non ve lo ricordaste, gli I Hate My Village nascono nel 2018 come progetto a due di Adriano Viterbini, chitarrista e cantante dei Bud Spencer Blues Explosion, e Fabio Rondanini, batterista di Calibro 35 e da qualche anno anche degli Afterhours, intenzionati a dare sfogo in qualche modo alla loro passione per la musica africana. In breve tempo, però, quello che doveva essere un duo s’è allargato a quartetto, dapprima con l’ingresso del produttore e bassista Marco Fasolo, che tutti ricorderete nei Jennifer Gentle, e poi con quello di Alberto Ferrari dei Verdena, a voce e chitarra.
Io avevo già avuto modo di vederli qualche anno fa al Todays di Torino, ma un po’ perché il recente e ottimo Nevermind The Tempo ha fatto schizzare il loro sound in territori molto meno definibili di quelli dell’esordio, parecchia era la curiosità di rivederli on stage. La curiosità è stata ripagata ampiamente da un concerto funambolico e scoppiettante, anche perché, devo dire, la loro musica è proprio dal vivo che dà il suo meglio, con quel mescolarsi di poliritmi pronti per essere danzati, riff e melodie che dall’Africa si espandono a farsi pischedelia, e suoni che rimpallano in ogni dove mutando in coloratissimo caleidoscopio.
Viterbini, in linea con le sperimentazioni dell’ultimo Bud Spencer Blues Explosion, ormai tira fuori dalla sua chitarra suoni impossibili, da un lato mimando sulla sua sei corde i fraseggi di strumenti africani come lo n’goni, ma dall’altro dando agli stessi una qualità futurista, fiiltrando il tutto attraverso una pedaliera capace di dare al tutto una grana quasi elettronica.
Sottolineare per l’ennesima volta la bravura e l’eclettismo di un batterista quale Rondanini potrebbe apparire quasi superfluo, ma è impossibile non farlo, visto il suo essere il motore ritmico e la base su cui ciascun pezzo si appoggia. C’è piuttosto da sottolineare quanto il suo lavoro si sposi bene al basso, quasi sempre fuzzato e anche in quest’ambito portatore di memorie sixties, di Fasolo, il cui lavoro concorre non poco a dare ulteriore originalità alla proposta.
Su tutto ciò s’inseriscono la voce e la chitarra di Ferrari, l’elemento più platealmente rock e psichedelico del quartetto, quello che porta in una dimensione più da “canzone” quello fatto dagli altri. Alberto, con fare da mattatore un po’ istrionico, è anche quello che maggiormente dialoga col pubblico, senza esagerare, intendiamoci, ché qui il grosso del lavoro lo fa la musica, ma con una leggerezza e spigliatezza che, forse, coi Verdena può concedersi probabilmente meno.
Ovviamente il repertorio si divide abbastanza equamente tra i due dischi fin qui pubblicati e quel poco di extra non finito negli album. Si parte con Tramp e poi si corre all’impazzata con pezzi come Italiapaura, Presentiment, Come Una Poliziotta, la super esotica Mauritania Twist, resa aliena dalla melodia cantata da Viterbini col filtro dell’autotune, tra le tante.
Certo, un concerto così, visto da seduto, non è poprio nella sua natura. A un certo punto anche la band sul palco se ne accorge e Ferrari fa segno di alzarsi e di andare tutti sotto palco. In effetti l’atmosfera s’infiamma, anche perché Tony Hawk Of Ghana rimane un pezzo spettacolare, capace di far muovere anche i morti, ma anche quello che viene dopo, compresa la ballata Broken Mic, viene recepito meglio potendo muovere culo e gambe. Forse avrebbero dovuto pensarci prima, ma anche così, grande live band e bella serata.