Ci stanno abituando fin troppo bene, Teo Segale e Marco Monaci, coi concerti che stanno organizzando nell’ottimo Spazio Teatro 89 di Milano. Quello dell’8 marzo, ad esempio, era un appuntamento considerabile imperdibile prima, non definibile altrimenti se non come memorabile poi.
Di scena c’erano difatti gli Horse Lords, una delle band contemporanee più esaltanti in circolazione, col surplus dell’apertura di una musicista molto interessante quale Julia Reidy.
Partiamo da quest’ultima, che non conoscevo, rivelatasi una gran bella scoperta. Australiana, ma residente a Berlino, è autrice di ben sette album, pubblicati da etichette quali Slip, Editions Mego e Black Truffle, quest’ultima quella che nel 2022 ha immesso sul mercato il più recente, World In World.
Dall’aspetto giovanissimo, quasi adolescenziale, Reidy si presenta sul palco imbracciando una chitarra elettrica, filtrata da un gran numero d’effetti posizionati sul banco di fronte a lei. Le sue composizioni si profilano piuttosto originali, perché in bilico tra mondi diversi, in alcuni casi ardui da immaginare accostati. Le partiture suonate con tecnica finger picking sulla chitarra farebbero pensare a scenari quasi folk, ma queste, grazie a filtri e pedali, si riempono di risonanze ambientali, filamenti di suono dronanti, piccoli beat ripetitivi, nuvolaglie fantasmatiche, in modo da spostare il tutto in territori più indistinti e sperimentali, un po’ alla stessa maniera di altri chitarristi come Duncan Marquiss o come un altro australiano quale Andrew Tuttle.
Lei, in alcuni passaggi, ci aggiunge un’armonica o la voce, la quale, quando viene passata attraverso l’autotune, come a volte fa, sposta ulteriormente la sua musica in ancor più indefinibili territori, risultando addirittura spregiudicata. Musica affascinante ed evocativa, perfetta per gli appassionati di cose tra l’impro e la canzone, e in bilico tra feeling elettronico e memorie ancestrali.
Nel frattempo la sala s’è riempita e si percepisce quell’energia potenziale delle grandi occasioni. Del resto, come si diceva, gli Horse Lords sono una delle band più (giustamente) chiacchierate e osannate dell’underground contemporaneo. In una decina d’anni, cinque dischi e quattro mixtape diffusi direttamente da loro via Bandcamp, la band di Baltimora, Maryland, formata da Andrew Bernstein (sax, percussioni), Owen Gardner (chitarra), Max Eilbacher (basso, electronics) e Booker Stardrum (batteria), ha costantemente dimostrato di saper far incrociare nei loro pezzi strumentali musiche piuttosto diverse, sintetizzandole in qualcosa di personale.
L’aspetto è quello di tipi abbastanza ordinari, magari un po’ nerd, ragazzi qualsiasi che t’immagini abbiano passato il grosso del loro tempo all’università o in qualche circolo culturale. Il tutto è per dire che sono l’ennesima band poco interessata al contorno, ma moltissimo alla musica.
La loro è stata descritta come l’intrecciarsi di scansioni ritmiche krautrock, schegge post punk memori di Remain In Light, bizzarre accordature su strumenti modificati, fraseggi melodici tra il folk appalacchiano e l’africa desertica, il tutto infiltrato da qualche coloritura elettronica. In qualcosa potrebbero farvi pensare ai Tortoise, ma immaginate il loro sound come più fisico, propulsivo, d’impatto, lontanissimo da qualsiasi tentazione fusion.
Se è musica che colpisce su disco, dal vivo letteralmente esplode, perché in fondo sono pezzi coi quali puoi ballare, ipnotici e stordenti, che inoltre attirano l’occhio per via dell’apparente facilità con la quale i quattro li mettono in scena, dimostrandosi sempre musicisti di caratura superiore.
Quando è al sax, Bernstein sa sia tratteggiare fraseggi tra il free e il melodico, che far sfoggio di una notevole tecnica per ciò che concerne la respirazione circolare, con la quale crea notevoli bordoni sonori. Quando passa alle percussioni concorre con Eilbacher e Stardrum a dar vita a una sezione ritmica killer, inarrestabile e fantasiosa, sulla quale s’incistano i fraseggi pazzeschi di Gardner.
I pezzi sembrano come costruiti attraverso la giustapposizione di pattern ritmico/sonori sui quali vengono apportate piccole variazioni e minimali slittamenti che rendono il tutto particolarmente dinamico. Roba che può apparire contemporanemante intricatissima e di una semplicità sconcertante e che, proprio per questo, finisce col mandarti via di testa.
Citare un pezzo piuttosto che un altro, proprio per questo, ha in fondo poco senso, perché è stato tutto l’insieme a colpire con forza. Che altro dire? Grandissima band e bellissimo concerto!