In Italia per sei date a supporto dell’ultimo 3 Shots (2015), i newyorchesi Hollis Brown, reduci da un lungo tour americano di spalla a Counting Crows e Citizen Cope, hanno dato prova di una crescita artistica sorprendente, riassunta in concerti dove la patina indie, talvolta un po’ incerta, del suddetto album, ha preso fuoco in un’esplosione di rock elettrico, graffiante e stradaiolo, reso ancora più coinvolgente da inevitabili quanto graditi omaggi a compagni di strada come Jesse Malin (She Don’t Love Me Now), numi tutelari come Bob Dylan (Outlaw Blues) e Neil Young (Revolution Blues), veri e propri padrini estetici come i Velvet Underground del quarto disco (Train ‘Round The Bend, Sweet Jane), lo scorso anno celebrato dal gruppo tramite un’ottima rilettura integrale delle sue 10 canzoni (Gets Loaded [2014]). Di cambi di direzione, gusti, vita da musicisti, armonie vocali, musica indipendente e nuove etichette discografiche abbiamo parlato, prima dell’esibizione al sempre accogliente Stones Cafè di Vignola (MO), col cantante Mike Montali (MM) e il chitarrista Jon Bonilla (JB), i due compositori della band.
3 Shots vi ha mostrato alle prese con stili diversi, diversi tra loro e diversi da quello che avevate fatto prima. Come sono andate le cose?
MM: Il primo album è stato registrato live in studio, come avrebbe fatto una garage-band, perché all’epoca (2013, ndr) ci sentivamo tali. Questa volta abbiamo sentito l’esigenza di differenziarci, di ragionare più a lungo su arrangiamenti e produzione, soprattutto perché non ci interessa realizzare dei dischi-fotocopia. Anche le circostanze sono state diverse: prima abbiamo suonato assieme per sette giorni, in Pennsylvania, nell’isolamento più totale, poi siamo tornati a New York per due o tre giorni di montaggio sonoro e infine ne abbiamo dedicati cinque al missaggio. Insomma, due settimane di lavoro anziché due giorni.
JB: Ride On The Train, oltre a possedere uno spirito da garage-band, era stato letteralmente registrato in un garage. Per 3 Shots abbiamo registrato qualcosa allo stesso modo, ma molto di quello che senti deriva dalle sovraincisioni successive, dai contributi del produttore Don DiLego e dal missaggio di John Agnello.
Mi ha stupito l’attenzione dedicata agli intrecci vocali.
MM: Ho sempre voluto trovare un bel suono di voci, un suono – magari! – paragonabile a quello dei Beach Boys o degli Eagles. Anche quando compongo, al piano o alla chitarra acustica, penso sempre al risultato delle voci e delle loro armonizzazioni. Grazie all’ingresso in formazione del nuovo tastierista, Adam Bock, che è anche grande cantante, penso potremo spingerci con decisione ancora maggiore verso questa direzione.
Come vi siete imbattuti in un brano inedito di Bo Diddley (Rain Dance) e come avete incontrato Nikki Lane, ospite in Highway 1?
MM: Abbiamo incontrato, a un concerto in New Jersey, uno dei curatori del materiale d’archivio di Bo e questi ci ha guidato attraverso una montagna di repertorio ancora inedito, fatto di canzoni appena abbozzate, tracce strumentali o brani in fase di sviluppo. Chiaramente si trattava di un’opportunità da cogliere al volo, perciò ci siamo buttati. È accaduto tutto piuttosto in fretta. Nikki invece è un amica, ci siamo conosciuti ai tempi del tour di Ride On The Train e da allora siamo rimasti in contatto. La canzone è in pratica un dialogo tra due persone, insomma, una traduzione sonora di una cosa che io e lei abbiamo fatto moltissime volte.
Vi siete trovati a incidere per la Jullian Records. Che tipo di etichetta è?
MM: Una piccola etichetta di New York nata in un negozio di dischi dallo stesso nome. Lavorano bene, anche se in maniera diversa da qualsiasi altra etichetta: una volta stabilito un budget, ti lasciano piena libertà creativa e poi si occupano di confezionare e promuovere il disco. Conosci James Maddock? Pure lui è su Jullian. Per quanto riguarda la promozione di un album, però, oggi come oggi non si può prescindere dai concerti. Siamo in tour da quattro mesi…
JB: È anche vero che per il tipo di musica di cui ci occupiamo noi, quello di conoscere e vivere la strada, di essere dei road dogs, è un requisito importante.
Vi sembra che al giorno d’oggi, con la “smaterializzazione” della musica, sia più facile essere ascoltati, trovare un pubblico?
MM: Non saprei. Oggi ci sono molti più ascoltatori potenziali, ma molti meno individui disposti a prestare attenzione. Per questo l’attività live è diventata ancor più basilare per portare a casa uno stipendio. I nativi digitali non sono abituati a pagare per la musica. Per loro è un’opzione che, semplicemente, non esiste. Infatti, purtroppo, al banco del merchandising abbiamo più successo quando ci esibiamo per un pubblico, diciamo, attempato.
JB: Bisogna soppesare attentamente le proprie mosse in modo da stabilire una connessione duratura con gli ascoltatori. L’industria discografica, in questo senso, non aiuta, perché proporre l’ennesima rimasterizzazione di Sticky Fingers dopo averlo già rimasterizzato una volta ogni dieci anni è solo un modo per entrare nel portafogli dei vecchi appassionati. Ma non esistono più gli A&R, non esistono più i produttori; è tutto cambiato. Nessuno è più disponibile a investire su di un progetto artistico a lungo termine, o fai il botto subito o vieni scaricato senza troppi complimenti. Iniziative come quella del Record Store Day, malgrado siano state anch’esse in parte fagocitate dalle major, possono ancora rappresentare una buona opportunità per i musicisti indipendenti. Per il prossimo RDS usciremo anche noi con un vinile apposito, intitolato Cluster Of Pearls e stampato dall’etichetta Alive NaturalSound! in mille copie.
Vi ritrovate nella definizione di «Americana»?
MM: Dipende da chi lo chiede e da cosa intende… Certo, nel nostro suono ci sono diversi elementi americani: il blues, il rhythm’n’blues, il folk, il r’n’r alla Chuck Berry, sì, anche se ormai il termine Americana è diventato un modo per indicare tutto ciò che non è elettronico, più o meno…
JB: …e d’altronde se fossimo usciti a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ci avrebbero definito heartland-rock, come Tom Petty o John Mellencamp. Forse, più della musica, quello che ci rende assimilabili al movimento Americana sono i testi di Mike, scritti, dalla prospettiva di persone comuni, riguardo ai problemi della quotidianità. Cose da classe lavoratrice («blue-collar things», ndr).
Ve lo chiedo perché ho letto da qualche parte che mezzi di comunicazione come NPR – l’organizzazione indipendente di oltre 900 stazioni radio americane – userebbe il termine per omologare le differenze dentro un unico contenitore… in effetti, se si fa un paragone con il cosiddetto college-rock di 25 anni fa, la situazione appare senz’altro meno fresca e creativa.
MM: Sì, ma riguarda anche il fatto di presentarsi in modo contemporaneo… se dici, «faccio parte di una rock’n’roll band», sembra tu stia parlando di qualcosa di vecchio, di risalente al giurassico. Alcuni hanno persino tirato fuori la classificazione di «dad-rock», il rock dei genitori. Invece, se dici Americana, benché si tratti della stessa cosa, o almeno di una cosa molto simile, sembri al passo coi tempi. I media vogliono usare parole in grado di sembrare fresche.
JB: Già, è tutta una questione di suonare hip. Ai tempi del primo folk revival dei ’60, quando il blues era decisamente fuori moda, Muddy Waters fece un album salutato da tutti come un ritorno, come l’inizio di una nuova fase, solo che quell’album (del 1964, ndr), tra l’altro bellissimo, conteneva il classico stile di Muddy, quel che lui aveva sempre fatto. Solo, si intitolava Folk Singer, e all’epoca andarono tutti in brodo di giuggiole, dopo essersi dimenticati di lui per un decennio.
Ok, quindi se qualcuno vi chiedesse che genere di musica fate, cosa rispondereste?
MM: Puro rock’n’roll americano.
(Gli Hollis Brown suoneranno stasera al Teatro Comunale di Dozza [BO] e domani, dalle 17:00, al Teatro Moderno di Vigevano [PV], dove verranno registrati un cd e dvd dal vivo. Se siete in zona, non perdeteveli.)
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