foto: Roberto Bianchi

In Concert

Hollis Brown + Jama Trio live a Milano, 4/11/2016

Hollis Brown + Jama Trio
Milano, Spazio Teatro 89
4 novembre 2016

Chi pensava che le bar band fossero state sepolte dal nuovo millennio doveva esserci il 4 novembre allo Spazio Teatro 89 di Milano ad assistere allo scalpitante e per certi versi entusiasmante show degli Hollis Brown, la band di New York con un paio di album alle spalle ed una splendida rilettura di Loaded dei Velvet Underground in Gets Loaded.

Aperti dal nostrano Jama Trio, il progetto nato attorno al cantante e chitarrista Gianmario “Jama” Ferrario con il bassista Massimo Allevi ed il batterista Francesco Croci, per l’occasione allargato a quartetto per la presenza di una vocalist e cantante, il concerto degli Hollis Brown ci ha riportato ad un altra epoca quando un certo tipo di rock n’roll riempiva i club americani e noi non aspettavamo altro che condividerne le emozioni.

Ma andiamo con ordine, avevo visto il Jama Trio qualche anno fa a supporto di uno show di Arianna Antinori, prima del loro tour in Texas, mi erano piaciuti per il taglio personale con cui affrontavano un folk-rock venato di blues che cercava di evitare i più abusati cliché del genere americana ma la storia era finita lì. Li ho rivisti la sera del 4 novembre ed è stata una vera sorpresa. Migliorati dal punto di vista strumentale, rinfrancati dal punto di vista compositivo dopo due album e due Ep, assolutamente padroni del palco con una dimestichezza da “americani” ed un uso proprio della lingua inglese, il set dei Jama Trio/Quartet per l’occasione, ha mostrato che le formazioni italiane possono non soffrire di soggezione rispetto ai colleghi di oltreoceano se dalla loro hanno una ricerca personale non dettata da imitazioni e alle derivazioni preferiscono la fantasia.

Gianmario Ferrario ha una bella voce, canta con naturalezza, scivola tra folk, roots e soul con fluidità e scrive canzoni che posseggono la caratura delle cose che si elevano se solo potessero beneficiare di una produzione ad hoc e l’esposizione che si meritano. Ne è esempio il brano con cui hanno concluso il set, No Regrets, un amalgama di soul e folk-rock arricchito dalla voce femminile che, con degli arrangiamenti solo un po’ più ricchi ed una orchestrazione mirata, avrebbe le caratteristiche di quei classici che fanno la fortuna dei grandi artisti. E non sto esagerando, anche se poi il Jama Trio ha il suo dna in uno stile più schietto e folkie e allora i quattro si avventurano in canzoni, è il caso di Strength e Day Dream, da cui fuoriesce un lato romantico e storyteller, come fossero un combo che suona all’angolo di qualche strada di Houston o Austin e la gente attorno ritrovasse un pezzo del proprio cuore affamato di poesia. Bravi.

Decisamente una rock n’roll band sono gli Hollis Brown, quintetto del Queens, ma almeno tre dei suoi membri vengono da altre città americane, che ha la punta di diamante nel cantante/chitarrista/songwriter Mike Montali, chiare origini italiane per uno che ha scelto di vivere il suo sogno rock n’roll come si usava negli anni settanta e in quegli ottanta sfuggiti al big drum sound e ai suoni di plastica. Ovvero energia, entusiasmo, vita on the road ed una band che mette insieme la crudezza dei Velvet Underground, l’inquietudine di un giovane bohemien come Jesse Malin, l’euforia dei Creedence Clearwater Revival. Di questi tre sono difatti le cover esibite al Teatro 89, la bella She Don’t Love Me Now pescata dal recente New York Before The War di Malin, la classica Sweet Jane dei Velvet ed un’arrembante versione di Green River messa lì ad hoc nel bis.

Un concerto di due ore, sostenuto, elettrico e divertente, coi cinque cappelluti e barbuti impegnati a trascinare il pubblico, in verità piuttosto comodo e seduto, in una riproposizione di quanto di meglio hanno espresso le bar boogie band all’epoca ovvero l’onestà di un blue-collar rock tagliato con le spigolosità urbane e addolcito da qualche ballata spezzacuori. Il tutto offerto coi migliori ingredienti del genere, in primis la voce maledettamente fresca e soul di Montali, il quid che dà agli Hollis Brown quel valore aggiunto per essere attuali anche se retrò, i taglienti assoli di chitarra di John Bonilla, uno che sembra uscito da un album del 1974, il certosino lavoro del tastierista Adam Bock più una sezione ritmica che fa il suo dovere senza far gridare al miracolo ma tiene alto il drive per tutte le due ore.

Il fuoriclasse è Mike Montali, alto, dinoccolato, con jeans, barba, stivali e cappello da baseball è il ragazzo della porta accanto che ti convince che suonando con sincerità la propria voglia di vivere, il rock n’roll è ancora la miglior forma di divertimento ed un mezzo per dimenticare i dolori e allontanare la noia. Certo bisogna avere delle canzoni convincenti e gli Hollis Brown le hanno, in primis quelle che arrivano dal loro ottimo album 3 Shots, la melodica Cathedral, il refrain acchiappa cuori di Sweet Tooth che ha visto Cesare Carugi aggiungersi alla band, il beat alla Bo Diddley di Rain Dance, la corale Sandy le cui parti strumentali emanano una gioia palpabile, la notturna e bluastra 3 Shots e quella Wait For Me Virginia che giustifica il loro nome proveniente da un titolo di Dylan, The Ballad Of Hollis Brown ma che un lancinante assolo di chitarra porta sulle sponde dei Rolling Stones.

Proprio gli Stones si percepiscono quando Montali fa il soulman e gli stacchi della band strizzano l’occhio a quel rock-funky delle Pietre periodo Black and Blue ma nelle lunghe due ore del set c’è tempo anche per le meditazioni bibliche di Walk On The Water e qualche ballata dalla coreografia rurale. In generale gli Hollis Brown tengono ben strette le loro radici di bar band e quando arriva Green River i conti tornano e il tempo si è fermato. All’età d’oro del rock n’roll.

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