foto: Lino Brunetti Nonostante l’apparizione di alcuni suoi pezzi in note serie TV e spot commerciali, e la benedizione di Dan Auerbach dei Black Keys, produttore di Head In The Dirt, suo secondo album, il californiano, di Los Angeles, Hanni El Khatib, non è ancora molto noto dalle nostre parti, come dimostrato anche dall’esigua partecipazione di pubblico a questo suo concerto milanese. Ed è davvero un peccato, in primo luogo perché i suoi tre dischi, compreso l’ultimo e piacevolmente ruffiancello Moonlight, in parte sulle orme proprio dei Black Keys, sono tutti niente male, e poi perché, pur se di fronte ad uno sparuto manipolo di appassionati, anche dal vivo ha dimostrato di poter imbastire uno show coi controfiocchi: ruvido, elettrico, garagista e molto rock’n’roll, affrontato col piglio energico e l’urgenza di chi sta dando tutto se stesso. Lui e la sua band – ad affiancare la sua voce e la sua chitarra, un secondo chitarrista/tastierista, bassista e batterista – non si sono insomma minimamente preoccupati del numero di persone davanti a loro e si sono dati con entusiasmo e voglia di condividere le loro canzoni. Per quasi un’ora e mezza hanno dato fuoco alle polveri, attingendo ai tre dischi fin qui pubblicati, con un equilibrio quasi matematico nel numero di pezzi tratti da ciascun album, dandone una versione più selvaggia e cruda, a tratti quasi sul modello di quanto fatto dall’eroe del garage punk odierno, Ty Segall, a tratti sulle orme di un Jack White minore. Le melodie di pezzi come Melt Me e Mexico, i riff a là Black Keys di brani come Moonlight o The Teeth, la sfrontata esuberanza rock’n’roll di Built. Destry. Rebuild. o di Pay No Mind, il blues e la potenza fatta di squassante distorsione e assoli al fulmicotone di Family, l’affondo ballabile di Two Brothers, alcuni dei momenti da ricordare. Una bella scossa d’adrenalina, in definitiva, perfetta per gareggiare con la calura estiva. E pazienza per quanti se ne sono rimasti a casa un’altra volta…
