Sarà forse per via delle voci di un definitivo scioglimento o magari per la predilezione per il cialtroneggio da palco mostrata da Howe Gelb nel corso degli spettacoli più recenti, ma sulla carta, l’impressione era che i Giant Sand si trovassero sull’orlo di una profonda crisi di nervi e che le idee fossero talmente agli sgoccioli da doversi aggrappare alla gloria del passato per mantenere l’equilibrio. Suggestioni rivelatesi mai tanto sbagliate nel corso del concerto dello scorso 13 giugno nel cortile di Palazzo Litta di Milano, dove anzi una formazione dei Giant Sand quasi completamente ridisegnata, ha suonato con l’entusiasmo dei debuttanti e la furia degli adolescenti come non succedeva da molti anni a questa parte, presentando il nuovo album in uscita ad agosto per l’etichetta inglese Fire Records, Returns To Valley Of Rain. Evidentemente l’idea di ricominciare da capo, reinterpretando da capo a piedi il disco d’esordio Valley Of Rain, inciso nel 1983 e pubblicato due anni più tardi, deve aver risvegliato in Gelb sopiti bollori insieme a quella grinta e a quella determinazione che nel tempo avevano lasciato il posto ad atteggiamenti da istrione se non proprio da burlone.
Un cambio di pelle piuttosto radicale ispirato forse dalla rigenerata formazione dei Giant Sand che comprende il batterista originale del debuttoWinston Watson e il bassista danese Thorg Lund accanto ai nuovi chitarristi twenty-something Annie Dolan e Gabriel Sullivan, a comporre un’esplosivo fronte elettrico con la vissuta Telecaster di Gelb, capace di resuscitare quel suono caustico e sospeso tra furore punk e acide sabbie del deserto che alla metà dei lontani anni ’80 sedusse un’intera generazione.
Buona parte di quei ragazzi, oggi dalle teste per lo più canute o glabre, riempiono il coreografico cortile di Palazzo Litta dove è posizionato il palco, in occasione della rassegna Mappe Festival – Geografie Del Contemporaneo, un’iniziativa che comprende arte, cinema, fotografia e ovviamente musica, valorizzando a scopo culturale la bellezza di un antico edificio barocco situato proprio nel centro della città. Ad inaugurare la serata ci sono i Patsy’s Rats, il gruppo della timida figlia di Howe Patsy Gelb e del chitarrista Christian Blunda che, accompagnati da Sullivan ai tamburi e dalla Dolan al basso, snocciolano una manciata di tiratissime e radiofoniche pillole pop’n’roll, mentre l’orgoglioso genitore scatta primi piani dalla platea.
Sono ormai le 23 quando i Giant Sand guadagnano il palco convincendo ad alzarsi anche chi fino a quel momento si era sentito di godere della comodità delle sdraio posizionate nelle retrovie e anche se è piuttosto chiaro fin da subito che lo show non sarà particolarmente lungo, bastano i primi strali di una mai dimenticata Valley Of Rain per accorgersi che ne è valsa la pena abbandonare la pigrizia e il confort del divano di casa, per scoprire fino a che punto Howe Gelb stia vivendo una seconda giovinezza (probabilmente la stessa di recente sperimentata da Steve Wynn con i rifondati Dream Syndicate). Senza pedaliere, effetti o altri supporti tecnologici, giusto il suono crudo e sferragliante di una chitarra elettrica e un’amplificatore, Gelb aggredisce tutte e dieci le canzoni che componevano Valley Of Rain quasi senza soluzione di continuità (giusto un paio di sorsi di birra) e soprattutto senza indugiare negli strambi eloqui che la temibile domanda rivolta al pubblico nel finale “Qualche altra richiesta?” avrebbe fatto presagire.
Pur senza rispettare l’esatto ordine dell’originale, i Giant Sand di scena a Palazzo Litta ritrovano il sacro fuoco di quelle ormai lontane schegge d’elettricità, intrecciando scenari desertici, vibrazioni psichedeliche, polveri country, Hank Williams e Lou Reed in un post-Paisley Underground che fa ancora sognare l’America e il Far West più romantici e malati. Watson batte il drumming secco e dinamico di un ragazzino, Lund rimescola la viscere con un basso profondo, mentre la Dolan e Sullivan provano a tenere dietro al genio di Tucson che non sbaglia un assolo e li invita spesso a lasciarsi andare, dilatando con vertiginose jam pezzi da novanta come la grandiosa Death, Dying And Chanel 5, Down On Town (Love’s No Answer), la punkettosa October Anywhere, la rocambolesca Man Of Want o Tumble And Tear.
Poco dopo mezzanotte, Gelb chiama sul palco la piccola Patsy per i cori e presta la chitarra a Blunda per un finale esplosivo che tiene sveglia la Milano bene e lascia senza fiato la platea, dove ad applaudire c’è anche un soddisfatto Vinicio Capossela. Non è ancora chiaro se il progetto proseguirà con la cronologica rivisitazione dell’intera discografia dei Giant Sand, ma considerando il tenore di quanto messo in scena lo scorso 13 giugno a Palazzo Litta, c’è solo da augurarsi che un’idea tanto folle cominci presto a germogliare nella mente di uno degli artisti più talentuosi e geniali che il rock abbia partorito dagli anni ’80 ad oggi.