Arriva a Milano soltanto pochi giorni dopo la sortita della sua vecchia band di appartenenza Father John Misty, tra l’altro nella stessa location, il Fabrique. Ed è davvero un peccato non essere riusciti ad andare a vederli i Fleet Foxes, per la cosa in sé ovviamente, ma pure per poter tracciare un ulteriore parallelismo fra due percorsi che ad un certo punto si sono separati. In fondo basterebbe sentire i due rispettivi ultimi album per evidenziare le differenze: laddove la band di Robin Pecknold è tornata con un disco involuto, per nulla facile, per certi versi quasi concettuale e sperimentale, un disco più di suoni e atmosfera che non di canzoni, Josh Tillman ha messo in piedi un lavoro che è invece tutto basato sul songwriting, radicato nel solco di un cantautorato seventies dal suono caldo e avvolgente, un suono garantito dalla mano esperta di un produttore/musicista quale Jonathan Wilson.
Ad aprire la serata, ulteriore motivo per esserci, nel caso ce ne fosse stato bisogno, Weyes Blood, progetto musicale della cantautrice Nathalie Mering, qui accompagnata da altri tre musicisti. Pur nella brevità di un set d’apertura, le sue canzoni oniriche sono riuscite a conquistare anche chi probabilmente non la conosceva. Pezzi bellissimi come Diary, Used To Be o Do You Need My Love sono risultati essere, ancora una volta, testimonianza di un grandissimo talento. Il fatto, poi, che in scaletta abbia infilato un’ottima versione di A Certain Kind dei Soft Machine, presentandola come una canzone particolarmente importante per lei, ha ulteriormente dimostrato tutto il suo valore e un gran buon gusto (la volta precedente in cui l’avevo vista aveva fatto una cover di Vitamin C dei Can, e ho detto tutto).
Ma torniamo a Father John Misty. Bastano le prime tre canzoni, tutte tratte dall’ultimo album, per capire il tono dello show. Alto e slanciato, vestito con sobria eleganza, Tillman ha un fisique du role in grado di stare in bilico tra l’entertainer di classe e l’artista tormentato. Nelle movenze e nella recitazione dimostra di avere una grandissima presenza scenica, ulteriormente valorizzata da un bellissimo gioco di luci, duraturo lungo un po’ tutto il concerto. Personalmente apprezzo molto il suo ultimo disco, ma certo non si può dire che brani come la stessa Pure Comedy, Totally Entertainment Forever o Things It Would Have Been Helpful To Know Before The Revolution abbiano quelle qualità in grado di far salire particolarmente la temperatura in sede live. Il mood è avvolgente e crepuscolare, un filo monocorde, orientato alla ballata anche nei numerosi recuperi dai vecchi album. L’interamente barbuta band che lo accompagna (tra i quali mi è parso di riconoscere dei musicisti alla corte di Wilson) è sicuramente brava nel vestire le sue canzoni con un suono ricco ed organico, ma in diverse occasioni mi ha dato l’impressione di essere lì a fare un lavoro, mettendo in campo grande professionalità, ma poco sentimento, contrastando non poco con l’evidente passionalità di Tillman.
Ci mette insomma un po’ ad ingranare veramente il concerto, veleggiando comunque più che piacevole nella prima parte, ma facendosi realmente appassionante solo nel suo proseguio, quando Josh stesso, stasera parso meno gigione del suo solito, si scioglie un po’ e la scaletta stessa prende corpo attraverso ballate intense come Bored In The USA, la ballabile ed electro True Affection (richiesta direttamente dal pubblico), una ruspante e country I’m Writing A Novel, la rockata Hollywood Forever Cemetery Sings, ovviamente un’immancabilmente cantata da tutti I Love You, Honeybear, il pop sixties di Real Love Baby, la lirica ed autenticamente emozionante So I’m Growing Old On Magic Mountain, fino alla potente The Ideal Husband, la quale chiude due ore, senz’altro generose, di appassionato cantautorato rock.