Nel comunicato stampa emesso in occasione di questo tour, e superficialmente ripreso da locali e organi di stampa, si legge che Evan Dando – «il leggendario fondatore dei Lemonheads» – sarebbe in Italia «per presentare i brani dell’ultimo Varshons». E meno male, essendo Varshons un disco (peraltro dei Lemonheads e non del solo Dando, nonché composto per intero da cover) risalente al 2009, che Dando si è deciso, sei anni dopo, a portarne in giro in frutti. Ma nei concerti del 2015 di quel disco non c’è un bel niente, com’è ovvio, e com’è purtroppo scontato per l’artista di Boston, al solito molto più tradizionalista e folkie di quanto il suo pubblico si aspetterebbe. Un’esibizione acustica per voce e chitarra, difatti, potrà magari non invogliare più di tanto i fan storici del vecchio gruppo, eppure rappresenta quanto di più vicino all’uomo e ai suoi gusti possa proporre, oggi, un autore il cui percorso più importante non è quello allineato sui binari del post-punk, o dell’hardcore melodico (sulla scia di Hüsker Dü, Replacements etc.), esplorato dai Lemonheads tra la seconda metà degli ’80 e il 1992 del successo planetario di It’s A Shame About Ray, bensì quello costituito dalle fragranze rootsy di Car Button Cloth (1996), uno dei migliori album country-rock dei ’90, o dalle sussurrate elegie folk di Baby I’m Bored, uscito ormai una dozzina di stagioni fa e sintonizzato sulle frequenze di una canzone d’autore tanto semplice quanto universale.
Sebbene non pienissimo, il bolognese Covo è comunque molto attento nel seguire uno spettacolo, introdotto dalle ballate tra rock e radici della compagna Sarah Johnston (in passato nella formazione dei Bran Van 3000, ora intenta a ricamare le visioni countreggianti di Big Love e Wide Open, brani dove il respiro di un folk cinematico à la Paris, Texas si fonde con echi desertici e malinconie astrali), durante la quale una trentina di canzoni, in un’oretta di musica, provvedono a fornire un’immagine di Evan Dando radicalmente diversa da quella cristallizzata nei successi “alternativi” di vent’anni or sono. Già, perché il concerto di Dando viaggia su due rette parallele e forse inconciliabili: da un lato, il piccolo greatest-hits d’epoca, gli assaggi dei passati successi offerti a chi, nella timidezza di un coro spontaneo, prova a innescare un rispettoso karaoke di fronte alla melodia obliqua di Hannah & Gabi, davanti al beat scanzonato di Confetti o nei pressi dell’apoteosi byrdsiana di My Drug Buddy, dall’altro la dimensione inafferrabile di un appassionato di musica fuori dal tempo e dalle mode, impegnato soprattutto a condividere i propri gusti con un pubblico che, fatalmente, non li approva o non li conosce.
Imbracciando la stessa chitarra tenuta in mano dalla collaboratrice, richiamata sul palco per uno struggente duetto sulla Settled Down Like Rain dei Jayhawks, Dando salta da Elvis Presley (Long Black Limousine) agli Stone Poneys di Linda Ronstadt (Different Drum), omaggia gli amati Misfits (mettendo insieme versioni fulminee di Skulls e We Are 138), cita gli amici australiani Smudge (Real McCoy Wrong Sinatra), paga pegno alla desolata poesia folkie di John Prine con una stupenda Speed Of The Sound Of Loneliness e manda a casa gli ascoltatori, sempre più disorientati, con ben tre pezzi di Townes Van Zandt (Tower Song, I’ll Be Here In The Morning e una commossa Snow Don’t Fall). Nel mezzo spuntano anche un brano di Ben Lee (I Wish I Was Him) dedicato allo stesso Dando e una canzone della quindicenne Melody Williamson (There’s No Country Here) in cui si stigmatizzano le patinature e la mancanza di anima del country odierno.
La rappresentazione è duplice, composta al tempo stesso sia da un performer ancora dotato di enorme carisma e perciò in grado di portarsi dietro persino una platea in larga parte ignara del repertorio esposto, sia dal fantasma fragile e confidenziale di un artista un tempo al centro del mondo e da un certo punto in poi concentrato sulla volontaria distruzione della propria immagine pubblica, del proprio riscontro, della propria accessibilità. Evan Dando, nel 2015, sembra un hippie fuori tempo massimo, un po’ fumato e un po’ distratto, abituato a dimenticare testi, accordi e in certi momenti forse persino se stesso. Il suo concerto va avanti grazie a particolari inutili, casuali, certo, eppure minuziosamente cesellati e, verrebbe da dire, amati, come se il senso della propria arte non venisse neppure affrontato ma, al contrario, risolto attraverso gli innumerevoli accenni al registro altrui. Alla fin fine nel concerto di Dando non succede niente: quel che di più importante accade, accade nell’animo di chi ascolta questo “Dude” Lebowski ancora magro come un chiodo e perdutamente innamorato delle canzoni dei suoi colleghi. Non si tratta di saggezza, o di fughe nel sogno: quanto si condivide in una serata con Evan Dando non sono le trascorse glorie del titolare (di cui, a lui e a noi, non potrebbe importare di meno), ma la trasognata consapevolezza di come sia la musica – di Dando o di altri artisti – a fare bella la vita.