Abbiamo perso tutti il conto delle volte che Eric Andersen ha allietato il FolkClub di Torino, ma la memoria ha sempre trattenuto uno strato di emozione incapace di volarsene via. Prima del concerto, una delle storiche Buscadero Nights che potrebbero in futuro essere allargate ad altre piazze, ci soffermiamo brevemente nel raccontare al folto pubblico, fra cui alcuni lettori della nostra rivista, le traversie vissute negli ultimi mesi, la resistenza di tutti coloro che si dedicano con orgoglio a garantirne la sopravvivenza (un miracolo che sembra perpetuarsi), il dolore acuto per la scomparsa di Paolo Carù, presenza sempre viva e percepibile sfogliando le pagine di un Busca immutato. Al ricordo di lui e al debito di riconoscenza che tutti abbiamo, la platea prorompe in un commosso applauso. Esteso poi al rientro di Eric, che accompagnato da Steve Addabbo raggiunge un palco decorato da pianoforte, chitarre — l’acustica di Andersen, la Fender del compagno d’esibizione — e tutti gli orpelli che riempiono la scena. Anche da Paolo Lucà, direttore del FolkClub, arriva un’emozione tangibile che rende la serata solenne.
La scaletta dell’esibizione è sostanzialmente diversa da quelle che l’hanno preceduta nei decenni scorsi. Il pensiero corre a Rick Danko, a Jonas Fjeld, a Scarlet Rivera. Arpeggi fatati introducono una rara Florentine, proveniente da Blue River e cantata con quel fraseggio vocale caratteristico, pieno di romanticismo, cui siamo stati abituati lungo una discografia ormai sterminata. La voce di Eric non risentirebbe più di tanto delle primavere, quantunque si sospetti che le temperature di Innsbruck — tappa del tour — possano avere influito sulla sua salute.
Eric procede con fierezza, sciorinando un repertorio talmente ricco che tutti si aspettano una qualche canzone destinata a non esserci. Disinvolto sulla chitarra, tocca il pianoforte con l’immutata grazia dei suoi accordi e delle sue gentili intonazioni. Non riconosciamo tutti i brani, alcuni parte del nuovo album in uscita. Ma You Can’t Relive The Past, che ci riporta alla condivisione con Lou Reed, e Rain Falls Down In Amsterdam, senza che manchi, al piano, la seminale Blue River, ci restituiscono tutta l’alata poesia dell’autore.
Gli interventi di Steve Addabbo all’elettrica, presenti per tutto il concerto (canterà anche una sua composizione), si rivelano sontuosi dalle prime battute e fioriscono, fra tocchi e assoli, la sequenza di Eric. Ci si domanda come un produttore e tecnico del suono di tale sensibilità abbia potuto limitare la sua produzione artistica. Talento senza se e senza ma, riempie di viva attesa l’uscita di un lavoro a suo nome. Andersen, al solito, non si risparmia, sorride al pubblico, va avanti con le sue ballate e qualche tocco di blues.
Ricorda Byron, a cui ha dedicato valido materiale, mentre Steve lascia scivolare Lie With Me, tratta dal formidabile Stages, sul suo bottleneck. Poi, un classico: Baby I’m Lonesome non ha pietà di chi ascolta e colpisce al cuore, grazie anche a un bellissimo duetto. L’incanto di Wind And Sand ancora ci trafigge, Close the Door Lightly When You Go ci riporta con tutta la sua dolcezza ai tempi di ‘Bout Changes & Things.
Ma una parte di me invoca in silenzio l’ode a Phil Ochs, Thirsty Boots. Eric afferra l’armonica a bocca e la intona con tutta la sua pacata passione. È questo il commiato, cui seguirà un’ulteriore ballata; il bis di un artista generoso, che sempre ha lasciato un amabile ricordo e speriamo di incontrare ancora. Un plauso particolare al brillante Addabbo e un ringraziamento alla gente del Buscadero, che non ha risparmiato amore.