DWIGHT YOAKAM
Second Hand Heart
Reprise/Warner Bros.
****
Un disco brutto non gli è mai riuscito farlo, nemmeno per sbaglio, eppure non so quanti avrebbero scommesso, dopo quasi dieci anni trascorsi alla corte di etichette indipendenti, sul fatto che il riposizionamento di Dwight Yoakam presso la Reprise, sussidiaria del colosso Warner Bros. per la quale il nostro ha pubblicato senza interruzioni dal 1986 al 2001, avrebbe portato in dote opere di tale levatura. Il penultimo 3 Pears, nel 2012 in parte (e a sorpresa) prodotto da Beck, mostrava, ancora intatta, la stoffa dei giorni migliori, ma questo Second Hand Heart, composto, arrangiato e supervisionato dal titolare (con lo zampino dell’esperto Chris Lord-Alge in fase di missaggio) negli ineccepibili Capitol Studios di Hollywood, equipaggiati con gli strumenti del non meno leggendario Les Paul, va addirittura oltre, ponendosi fin dal primo ascolto tra i lavori più riusciti dell’artista del Kentucky.
Per l’ennesima volta, Yoakam ha confezionato un album ricorrendo alla memoria quale pilastro quasi esclusivo dell’architettura sonora, senza rabbia e di sicuro senza alcuna nostalgia, intessendo un ulteriore tassello del suo personale, inesauribile tributo alla tradizione del country di Bakersfield codificato dai mèntori Buck Owens e Merle Haggard, al folk-rock cristallino e limpidissimo dei Byrds, alle piccole frenesie ritmiche di Buddy Holly, alle armonie perfette degli Everly Brothers, al rock and roll spigoloso di Gene Vincent e al furioso cow-punk della Los Angeles degli anni ’80, quando manici come Link Wray e Billy Zoom – il chitarrista degli X – potevano scambiarsi gli strumenti senza che nessuno, nel distorto frastuono generale, lo trovasse strano. Il country, per un Dwight Yoakam mai come in questa occasione indirizzato verso il rock puro e semplice, è insomma una questione di stile, privo però di esercizi e maniera, e anzi impressionante, in un’epoca di correzioni automatiche approntate in studio, per incisività, vigore e continuità della forza espressiva.
Stupefacente, forse su tutto il resto, è il controllo vocale del nostro, all’indomani delle sessanta primavere (scoccheranno l’anno prossimo) ancora inesorabile nel mettere insieme fango e miele, blues e honky-tonk, abbandono rockista e yodel, tutti riassunti nel suo tipico timbro nasale, come se fosse la cosa più facile del mondo. E a proposito di vocalizzi, ecco che Second Hand Heart, tra le altre cose, assume i contorni di un affettuoso, prolungato omaggio all’amatissimo Elvis Presley (del quale il nostro non ha mai smesso di proporre, dal vivo, diverse riletture), evidente sia nella rivisitazione in stile Suspicious Minds di Dreams Of Clay, un brano minore del peraltro ottimo Tomorrow’s Sounds Today (2000) qui portato a nuovo splendore tramite un arrangiamento di chitarre twangye pedal-steel, sia nel selvaggio rockabilly di una Liar somigliante a un remake di Mystery Train diretto dai Kinks ma attraversato da una scia acida di Telecaster degna dei Rolling Stones. Il fantasma di Elvis appare anche durante la parata memphisiana dell’incendiaria The Big Time, ma non prima di aver incontrato gli Stanley Brothers della classica Man Of Costant Sorrow, strapazzata da Yoakam e dal chitarrista Eugene Edwards in un frullato hardcore equivocabile con una delle scariche di adrenalina dei Ramones, e l’apoteosi beatlesiana di She, diluvio di Rickenbaker (in un disco in ogni caso dominato dalle dodici corde) trasformato in valzer travolgente grazie anche a una sezione ritmica (Mitch Marine ai tamburi, Jonathan Clark al basso) di contagiosa efficacia nonostante l’approccio dichiaratamente minimalista (ascoltate l’introduzione di percussioni alla citata Dreams Of Clay). Se Off Your Mind, con le sue sfumature westernswing, dispiega un ulteriore aggiornamento del linguaggio country della California degli anni ’50, il countryrock trascinante di una In Another World resa unica dai gorgheggi alla Beach Boys e la sconquassante tensione elettrica della title-track (dove «di seconda mano» c’è appunto solo il cuore del protagonista), come pure il crooning da manuale dell’altrimenti pungente Believe, rappresentano invece lo stato dell’arte dell’evoluzione di Dwight Yoakam nel fare propri i tratti più caratteristici e affascinanti del rock americano. In chiusura, V’s Of Birds, scritta dal collega Anthony Crawford (polistrumentista dell’Alabama già al fianco di Yoakam nel tour di Gone [1995]), usa, dopo un magnetico preludio di tastiere, il mandolino di Brian Whelan e un forte sapore gospel, sulla falsariga di The Band, per aggiungere altri colori sulla tavola di un album in cui le emozioni, gli stati d’animo, le visioni e i suoni delineano un prontuario di ciò che in musica vorremmo sempre sentire.
Vista la direzione magniloquente, tronfia e in tutta sincerità insopportabile presa dal country mainstream delle nuove generazioni (artefici di quanto Tom Petty, con esattezza indiscutibile, ha definito «pessimo rock con i violini»), sarebbe bello se Second Hand Heart, e più in generale la carriera di Dwight Yoakam, diventassero una specie di commiato: un addio definitivo a tutta la spazzatura che viaggia per le arene, ignora (o travisa) le radici, non sa elaborare una sola idea personale e nulla ha che fare, evidentemente, con dischi magnifici come questo.