Se c’è una città in Italia che può vantare una stagione concertistica di livello internazionale, sempre molto ricca e varia, quella è sicuramente Milano, tanto che non credo sia così facile riuscire a ritagliarsi uno spazio riconoscibile e personale al suo interno. Dall’anno scorso, ci stanno provando con convinzione e costanza Teo Segale – figura piuttosto nota in città, con una indubbia preparazione ed esperienza in campo musicale – e Marco Monaci, animatore del piccolo, ma sfiziosissimo negozio di dischi e libri specializzato Volume!.
Se nella scorsa stagione hanno fatto sfilare, in quello che potremmo considerare il loro luogo d’elezione, ovvero lo Spazio Teatro 89, accoglientissimo teatro posto in zona San Siro, nomi quali Horse Lords, Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, Mourning (A) BLKstar, Eric Chenaux o Ben LaMar Gay, per iniziare la nuova, in attesa dell’arrivo degli indonesiani Senyawa e degli australiani The Necks (i primi nomi annunciati), si sono inventati quello che loro stessi hanno chiamato una specie di festival, ovvero due giorni di musica (ma anche altro) denominati molto semplicemente Due Giorni, appunto.
Senza perdere la loro vocazione nel proporre musiche di ricerca, o comunque sempre particolari e originali, i due hanno chiamato a raccolta una serie di anime affini a fargli compagnia (le si poteva trovare nei vari banchetti gestiti da etichette, bookshops, editori indipendenti e altro come Blacksweat, Maple Death, Artetetra, Les Giants, Frankestein Magazine, Heimat Der Catastophe, Sfera e altri), ma soprattutto hanno messo in piedi un programma eclettico e stimolante che non poco ha reso speciale il weekend a cavallo di settembre e ottobre in cui s’è svolto.
A voler guardare il bicchiere mezzo vuoto, si potrebbe dire che, forse, la partecipazione del pubblico, soprattutto per ciò che concerne il secondo giorno (paradossalmente quello con gli artisti stranieri, ma c’è da dire che nella stessa sera suonavano anche Zola Jesus e bar italia), è stata inferiore alle aspettative, ma realisticamente parlando, lo dico da esterno ovviamente, non si può dire che sia andata male: la maggior parte dei nomi erano assolutamente di nicchia e, considerando questo, oltre al fatto che il tutto era in fondo soprattutto un primo esperimento, il margine per far sperare che Due Giorni possa diventare un appuntamento annuale, magari con qualche piccolo aggiustamento, c’è tutto.
Lasciamo da parte le previsioni per il futuro – ma non gli auguri per radiose prossime edizioni – e facciamo piuttosto una veloce carrellata su quanto c’era in programma quest’anno. Ad inaugurare il festival, un po’ dopo le 18 previste per via del traffico in zona a causa della partita del Milan in casa, ci ha pensato la Brenti Orchestra, progetto del musicista e percussionista sardo Alessandro Cau, il quale, a seconda di dove suona, si fa accompagnare, quantomeno in parte, da musicisti che trova in loco (in questo caso, tra gli altri, segnaliamo almeno la presenza di Adele e Marco di Any Other e del contrabbassista Michele Anelli). Musica rarefatta e atmosferica quella messa in scena dall’allargato ensemble, presumo realizzata con una certa dose d’improvvisazione, per una performance evocativa e spirituale, più carnale solo nell’ultimo dei tre lunghi movimenti eseguiti, dove il tutto ha preso i contorni di un più pulsante free jazz, quasi alla maniera del maestro Archie Shepp.
Tutt’altre atmosfere quelle messe in mostra da Krano, ex bassista dei Movie Star Junkies, e la sua band. Cantautorato rock lo-fi con tracce di sporcizia indie, un po’ di psichedelia, qualche scampolo di Americana e la svagatezza data da testi cantati in veneto. Le canzoni sono buone, il sound è quello giusto ma, per quanto simpatico, magari sul palco un minimo di tenuta da parte del leader più convinta sarebbe auspicabile, non foss’altro per non dare l’impressione di essere nella propria sala prove.
Intestatari di un primo disco di recentissima uscita, titolato con il loro stesso nome, i Liquami erano qui al loro esordio assoluto su un palco. Sorta di super gruppo con dentro membri di Fine Before You Came, Generic Animal, Any Other, Dummo e Asino, non hanno certo dato l’impressione di essere alla loro prima volta e hanno invece convinto con una proposta efficace e appassionante, frutto di una mescolanza di post rock, slowcore e cantautorato post hardcore, in canzoni venate d’enfasi emozionale, dolcezza e ruvidezza assieme. Bella scoperta, davvero notevoli.
E notevole è stato anche il ritorno dei Movies Star Junkies. La rock band torinese ha oggi una formazione in parte rinnovata, ma ha sempre in Stefano Isaia un cantante e un frontman eccezionale, selvaggio ed alcolico. La loro torbida miscela di punk, blues, psichedelia e oscurità caveiana è sempre una delle cose migliori nella quale possiate imbattervi su un palco e anche stavolta non hanno mancato di dimostrarlo. Non solo attraverso una presenza scenica che fa la differenza, ma soprattutto grazie a un suono potente e urticante e a canzoni splendide che, anche se non le sentivo da anni, ancora perfettamente ricordavo, a ulteriore dimostrazione della bontà della loro scrittura. Non perdeteveli nel caso passino dalle vostre parti.
Quando arrivo alla domenica, i Classical Hooligans, duo di selecter di musica classica, stanno sparando a tutto volume dischi estratti dalla fonoteca presente qui allo Spazio Teatro 89: roba così potente che, quasi quasi, il set elettronico, tra minimalismo, ambient e psichedelia, di Everest Magma risulta meno sorprendente di quello che mi sarei aspettato, visto l’apprezzamento che ho per i suoi dischi. Intendiamoci, non male, ma forse è musica che regge più all’ascolto casalingo che non alla sua esecuzione live.
Il folle Giacomo Laser m’ha fatto tornare alla mente un articolo di qualche mese fa letto su The Wire dove si parlava di una serie di artisti in bilico tra l’attività di comedian e quella di musicisti. Il poliedrico artista era qui a presentare un finto panel il cui tema era il “guardare gli altri mentre giocano”, spunto per una comicità surreale portata avanti grazie a una spalla, una serie di video e slide e qualche momento musicale elettronico a inframmezzare il tutto. Divertente e sicuramente curioso.
Arriviamo così agli ultimi due set del festival, quelli con gli artisti internazionali (con in mezzo l’ottima selezione musicale curata da Les Giants). Gli Yalla Miku sono un gruppo di base a Ginevra, ma formato da musicisti non solo svizzeri, ma anche algerini, marocchini e dell’africa nera. Il loro ottimo album d’esordio è stato da pochissimo pubblicato dalla benemerita Les Disques Bongo Joe – la stessa etichetta dell’Orchestra Tout Puissant, il cui bassista e leader Vincent Bertholet è anche qui della partita – ma dal vivo il settetto ha decisamente una marcia in più, facendo letteralmente esplodere di ritmi, voci ed energia a profusione la loro musica. Musica che, come ha sottolineato benissimo durante lo show il cantante, chitarrista e banjoista Cyril Yeterian, non punta a creare quella tipica world music in cui musicisti occidentali si appropriano di musiche non loro, ma piuttosto a dar vita a un incontro paritario in cui ciascuno mantiene la propria unicità, dialogando con gli altri attraverso il suono e l’incontro culturale. Da tutto ciò viene fuori una musica contrastata e particolarmente eccitante, con l’elettronica a interloquire con gli strumenti tradizionali, le graffianti schegge post punk e noise a infilarsi tra le melodie del Nord Africa e le percussioni a movimentare l’ipnosi ritmica di matrice krautrock. Una bomba insomma, per un concerto davvero straordinario.
Diversissima, ma parimenti esaltante la proposta degli sloveni Širom, di ritorno in Italia dopo alcune date fatte quest’estate. Nella sala, intanto, sono apparsi dei materassini e il pubblico si dispone su di essi per godere del folk visionario del trio, il quale anche stavolta, come fatto un po’ in tutto il tour, ha eseguito per intero l’ultimo album, il fascinoso The Liquified Throne Of Simplicity. Ed è sempre magia osservare come la band riesce ad estrarre suoni non solo dai numerosi strumenti coi quali si circonda, ma anche da una serie di oggetti come tubi di gomma, ciotole con dentro dei semi, nastri adesivi e via discorrendo. È una musica poetica e misteriosa la loro, creatrice di un universo immaginifico nel quale perdersi e con cui ottimamente Due Giorni si conclude, lasciando nella memoria una gran bella esperienza, che ci auguriamo venga ripetuta, magari con un po’ di partecipazione in più, cosa che non guasta mai.