Per quanto i nomi in cartellone fossero quelli di Deerhunter e Atlas Sound, alla fine il vero protagonista di questa serata al Magnolia è stato Bradford Cox. Quasi inevitabile, si potrebbe sostenere, visto che il cantante e chitarrista di Atlanta è il frontman dei primi e l’unico intestatario dei secondi.
Ad aprire, davanti ad un pubblico che ancora sta affluendo, sale appunto il solo Cox, col suo progetto solista Atlas Sound. Con un repertorio composto solo da brani inediti – presumibile ossatura di un nuovo album – Cox ha dato vita ad un suono simile ad una nebulosa psichedelica, creata con l’ausilio di una chitarra super effettata, delle tastiere, di ritmiche sintetiche capaci di dare al tutto un oscuro feeling elettronico. Le melodie vocali si perdono quindi in un sound meno etereo e pop che in passato, sempre dal profilo lisergico, ma mediamente più conturbante ed allucinato, al contempo astratto e fisico.
Qualche minuto di pausa, in cui le ultime note di Atlas Sound paiono ancora galleggiare nell’aria, ed è la volta dei Deerhunter. Cox è ovviamente ancora sul palco – unico cambiamento: in camicia e non più col maglione – ma lascia l’apertura ad un pezzo cantato dal chitarrista Lockett Pundt, la splendida Desire Lines tratta da Halcyon Digest. Pundt è più timido, senz’altro meno estroverso di Cox (anche le sue canzoni hanno un minore impeto rock, come dimostrato anche da una comunque ottima Ad Astra, eseguita più avanti, quasi a fine show), ma è l’elemento che lo bilancia per molti versi. Detto questo, sarà però Cox a prendere in mano le redini del concerto subito dopo, e non perché gli altri siano dei semplici comprimari, tutt’altro, ma perché è lui a dettare il passo a composizioni che dal vivo guadagnano una maggiore urgenza elettrica (emblematiche le versioni di alcuni pezzi tratti dall’ultimo, ottimo album, Fading Frontier, vedi Breaker o una Living My Life rivoltata come un calzino e trasformata in brillante sunshine-pop), a farsi ricordare tramite le sue melodie, il suono nervoso della sua chitarra, la sua allampanata presenza scenica.
Tra distorsioni indie, ballate dalle melodie pop che sfociano in muri elettrici (Don’t Cry, Take Care), ipnotiche cavalcate minimali che si allungano a toccare quasi i venti minuti (una mastodontica Nothing Ever Happened), i Deerhunter hanno dimostrato di non avere una visione impiegatizia della loro musica, ma di considerare le loro canzoni materia da plasmare, un groviglio di suoni su cui lavorare incessantemente, stando magistralmente in bilico tra accessibilità pop e lucida visionarietà. Bizzarro solo il fatto che, nella foga elettrica a cui hanno dato vita, non abbiano dato nessuno spazio alle canzoni di Monomania, le cui staffilate garage ben si sarebbero amalgamate qui stasera. Ma è giusto una notazione, nulla di più. Nulla da recriminare in realtà sulla riuscita totale della serata.