Francesco De Gregori è un patrimonio del songwriting italiano. L’ho incontrato sui Navigli a Milano in una sorniona mattina di dicembre in occasione dell’uscita di Vivavoce, un doppio album che ripercorre le pagine chiare e le pagine scure della sua carriera, riportando alla luce classici intramontabili e canzoni meno baciate dalla fortuna. Francesco è molto gentile, premuroso ed è entusiasta all’idea di fare un’intervista per Buscadero, essendo lui da sempre un grandissimo appassionato di musica americana e di Bob Dylan. Ha voglia soprattutto di parlare di musica.
Partiamo subito da questo nuovo disco, Vivavoce, come hai scelto le canzoni?
Non sono partito da una scaletta scritta e pensata. Tre quarti del materiale è arrivato in modo naturale dal live. Solo quando abbiamo cominciato a lavorare in studio ci siamo accorti che non tutto funzionava. Sono due dimensioni molto diverse e alcuni brani sono rimasti fuori per questo motivo.
Canzoni come Rimmel e Pablo quindi non sono rimaste fuori in maniera premeditata?
Rimmel eravamo partiti con l’idea di metterla ma non veniva come avrei voluto. Ha una ritmica strana. Sul disco funziona perché c’era un batterista che l’aveva suonata in quel modo. Se io oggi chiedessi a un batterista di suonarla così mi tirerebbe appresso una scarpa. Dal vivo continuiamo a farla e l’abbiamo suonata anche in questo tour europeo e finalmente sembrava funzionare… ma ormai era tardi per metterla nel disco (ride). Pablo invece non la faccio da un sacco di tempo perché la trovo ingombrante da un punto di vista del testo. Non so perché, non è un pezzo particolarmente combat. Più che ideologico lo trovo oleografico. C’è una definizione dell’emigrante che è molto letteraria e forse è quello che mi blocca. L’ho scritta quando l’immigrazione in Italia non esisteva e oggi mi sembra un presepe, una pastorellata, davanti al dolore reale e al disagio di tutti, per quelli che arrivano e per quelli che accolgono.
Alcuni classici hanno lasciato spazio in questo disco a brani meno conosciuti al grande pubblico… sono quelli che ti diverti di più a suonare dal vivo?
Ma no, io mi diverto pure a fare Generale o La Donna Cannone, cioè mi vengono delle idee anche su quei pezzi. Mi piace trovare delle soluzioni sonore nuove che facciano sentire le canzoni vive. Primo perché la copia dell’originale non verrebbe mai bene, come è successo con Rimmel, e secondo perché comunque il gioco sta nell’invenzione, magari non necessariamente mia. Chiedendo aiuto a Piovani per esempio. Mi diverto a rifare anche i pezzi classici ma è bello riportare alla gente brani come Un Guanto o Il Panorama di Betlemme.
Il Panorama di Betlemme è uno dei pezzi più potenti del disco a mio avviso. Mi ricorda le atmosfere di Lonesome Jubilee di John Mellencamp…
Grazie, anche a me piace da morire. Non mi sento uno che è confinato nel periodo d’oro dei cantautori. Non so se è presunzione o arroganza ma mi sento uno che continua a fare musica e che magari negli ultimi dieci, quindici anni ha fatto dischi che hanno venduto di meno perché il mercato si è infossato e non mi ha voluto bene. Le radio non mi hanno mai passato tanto, in particolare questi brani. Questo disco è un’istantanea di quello che io sono oggi nel 2014 e sono anche Il Panorama di Betlemme, Un guanto e Stelutis Alpinis, oltre a La donna cannone e Buonanotte Fiorellino.
Come sono nati gli arrangiamenti?
Sulla strada, dal vivo. Sono parecchi anni che lavoriamo sul suono, sul vestito che sia utile per le mie canzoni e che sia in qualche modo innovativo per l’Italia. Abbiamo suonato quasi tutto in presa diretta. Suoni con la stessa band, da tanti anni e si vede che ti diverti sul palco. Hai maturato un sound molto americano, con tante chitarre, la steel guitar… Mi dicono che le chitarre sono bandite dalle radio, che se fai un disco con troppe chitarre sei fuori moda. Evidentemente a noi piace essere fuori moda. Ne abbiamo addirittura quattro sul palco. Una la suono io, una Paolo Giovenchi, una Lucio Bardi e poi c’è Alex Valle che suona pedal, mandolino, dobro… di corde ce ne stanno parecchie… Io sono nato con le chitarre in mano e mi piace così.
Hai mai pensato di farti produrre un disco da un grande producer americano, magari Daniel Lanois visto il tuo amore per Dylan? Oppure Joe Henry, Rick Rubin, T Bone Burnett…
La prima cosa che mi direbbe un produttore serio è manda via tutti, chiamo io i musicisti. Ho lavorato anni per essere il cantante di una band e non ci voglio rinunciare adesso.
Ti senti un po’ vincolato dalla tua posizione e dalle richieste del mercato quando incidi un disco?
Credo di essere sempre stato abbastanza libero nelle scelte, sia a livello di composizione sia di arrangiamento. Non ho mai deciso di mettere un riff perché potesse essere più commerciale. Capita a volte di dover accorciare le canzoni per le radio, ma mi consola pensare ai Byrds che tagliarono Mr Tambourine Man di oltre la metà e Dylan fu felicissimo del risultato.
Non sono molti i cantautori italiani che vengono recensiti su Buscadero… tu sei stato perfino in copertina. Qual è il tuo rapporto con gli USA e quali sono le città a cui sei particolarmente legato?
Sono molto onorato e felice di questo riconoscimento del Buscadero. La mia prima volta in America risale al ‘76, quando l’America era veramente lontana. Non c’erano i voli low cost, addirittura era un problema portare fuori dall’Italia abbastanza soldi per potersi mantenere per 2 mesi. C’erano parecchie restrizioni. Mi aiutò la RCA. Il direttore Melis mi fece accreditare un po’ di dollari presso la RCA americana. E ci andai due anni di fila in America con quei soldi, perché erano tanti. Questa prima volta del ‘76 per me fu seminale. Intanto scoprii l’America esattamente come me la immaginavo. Quella era, para para. Che è bello, anche se detto così sembra una banalità. I grattacieli saranno davvero così alti? Sono alti così. La prateria? Esattamente così. Partimmo da New York e da tutti i luoghi dylaniani per arrivare fino a Nashville, naturalmente. A New York andai a sentire Tom Paxton al Bottom Line. Fu un tuffo in tutta la musica americana. A Las Vegas ascoltammo Frank Sinatra che suonava con tutta l’orchestra. L’America era un paese molto libero musicalmente e anche le cose che non erano in cima alle mie preferenze musicalmente, come ad esempio Frank Sinatra, arrivavano con un’autenticità, perché stavano lì.
Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 374 / Gennaio 2015.
https://www.youtube.com/watch?v=4gSyOd9IEj8