Recensioni

Dawes, All Your Favorite Bands

dawesDAWES
All Your Favorite Bands
Hub Records
***½

E’ proprio impossibile non iniziare la recensione con un classico: Don’t judge an album by its cover! Ma in questo caso non ci si può esimere dal sottolineare che davvero il nuovo lavoro All Your Favorite Bands, dei californiani Dawes, ha messo in campo una delle peggiori copertine viste recentemente, evidentemente i fratelli Goldsmith non si lasciano prendere dai particolari della superficie, ma preferiscono badare al sodo e occuparsi principalmente della musica, del resto, per calcare la mano, sarebbe sufficiente osservare quanto poco sia attento il leader ai particolari guardando i video relativi a questo album e quanto il manico della sua chitarra sia sporco, addirittura incrostato, sotto i tasti nei punti dove non scorrono abitualmente le dita (i chitarristi inorridiscano!).

Bene, criticata l’apparenza, per quanto invece attiene la musica, dobbiamo dire che per il loro quarto album i Dawes hanno fatto le cose per bene e si sono affidati alla produzione dell’ottimo David Rawlings, uno che ne sa parecchio e che, in quel dei Woodland Studios a Nashville, ha guidato e prodotto la band, registrando il disco quasi in modalità live; la differenza la si sente, ci sono meno leccature e maggiore spontaneità, cosa che poi si ritrova nel risultato finale che dispensa gran buone vibrazioni. I suoni della band losangelina sono sempre saldamente agganciati alla West Coast, Jackson Browne, Eagles e dintorni ma con qualche apertura a nuovi percorsi, i Dawes dispensano un folk rock dalla scrittura e dall’incedere luminoso, con gli strumenti che, pur avendo un ruolo importante, accompagnano la centralità assoluta della voce di Taylor Goldsmith, voce che viene costantemente tenuta in primo piano, non particolarmente dotata ma che alla lunga assume una piacevolezza inusitata. Poi dentro ci sono tamburi che suonano morbidi (Griffin Goldsmith), chitarre acustiche, il piano molto importante di Strathairn, pedal steel e hammond e l’elettrica di Taylor che effettua, rispetto ai passati lavori, più misurate ma significative incursioni.

Il disco, pur avendo una certa omogeneità, ad ogni ascolto propone nuove letture che aiutano a far uscire le canzoni che, in ultima analisi, in almeno tre, quattro casi sono di eccellente fattura, a cominciare dalla ballatona sognante browneiana, Somewhere Along The Way, uno dei brani killer del disco, che ha l’unica pecca di sfumare sul più bello. quando invece avrebbe potuto animarsi ulteriormente e rilanciare la bellissima melodia e il solo avvincente di chitarra. I Can’t Think About It Now è il pezzo che dà la seconda botta al cuore, quasi ci fosse Mike Campbell nella chitarra e Tom Petty nella voce, il pezzo possiede un crescendo trascinante, fino al falsetto quasi “impiccato” ma efficacissimo di Taylor, corroborato dai cori delle illustri ospiti Gillian Welch e le McCrary sisters, grande pezzo, come pure intensi sono i conclusivi nove minuti in crescendo di Now That It’s Too Late, Maria. Le note nuove sono portate dall’indie pop rock, di matrice quasi british, nella iniziale (ed anche singolo) Things Happen e in Don’t Send Me Away che, per il suo incedere e per le harmonies dei fratelli Goldsmith, sembra uscita dai dischi pop dei Fleetwood Mac.

All Your Favorite Bands non appare forse l’album dell’evoluzione di uno stile musicale della band, per un cambio di rotta che i Dawes, giunti al quarto album, forse potevano ricercare, rappresenta però un forte consolidamento con qualche significativa apertura, una piattaforma robusta e stabile da cui partire con slancio per il prossimo episodio che a quel punto potrebbe proporci qualcosa di nuovo e magari permetterci di asserire che questa band potrebbe prendere il posto dei Jayhawks nel cuore degli amanti del genere. Nell’attesa di avere la risposta al nostro interrogativo godiamoci questo album ricco di buone canzoni, attrezzate con melodie accattivanti, strumentazioni ariose, con qualche buona intuizione, insomma il disco giusto per accompagnare le vacanze on the road, sempre e irrimediabilmente “sognando la California” (comunque, detto in confidenza, a noi piacciono anche se restano così, abbastanza fedeli a se stessi).

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