
DAVID LEE ROTH
The Warner Recordings 1985-1994
5CD, Warner/ Rhino
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David Lee Roth è stato «l’altra metà del cielo» di un fenomeno mondiale chiamato Van Halen. L’altra metà, come sappiamo, era Eddie van Halen, chitarrista e polistrumentista talentuoso, scomparso prematuramente alcuni anni fa. Il classico hard rock del gruppo – decisamente mainstream ma originale, specie a inizio carriera – non si negava contaminazioni con altri generi e li fece diventare uno degli act più famosi al mondo.
Roth, vero animale da palcoscenico, estroverso e larger than life, con mille passioni che andavano oltre la musica, decise infine, date le sempre crescenti controversie con Eddie sulla direzione da intraprendere dopo il clamoroso successo riscosso da 1984 (quello di Jump, per intenderci), di lasciare il gruppo. Da lì in poi, e soprattutto negli anni relativi a questo box, Roth diede vita una carriera solista baciata inizialmente da un successo clamoroso e poi decaduta, almeno artisticamente, nell’anonimato di chi non ha saputo ritrovare il bandolo della matassa.
The Warner Recordings 1985-1994 raccoglie senz’altro il meglio di quanto Roth ha espresso, ma ha un difetto non da poco, in particolare per i suoi seguaci e per quelli del suo ex-gruppo: non contiene alcunché di inedito e anzi, seppur con una buona rimasterizzazione, ripropone tali e quali i lavori che si sono succeduti dal 1985 al 1994. Non una mancanza da poco, dato il materale di partenza non sempre irresistibile. Il primo CD è un extended uscito appunto nel 1985, Crazy From The Heat, quattro brani e altrettante cover, puro divertissement su tracce di Edgar Winter (Easy Street), Beach Boys (California Girls, tale e quale all’originale) e Louis Prima (Just A Gigolo): piacevole, nulla a che vedere con il passato ma, manco a dirlo, successo clamoroso.
E allora Roth forma una sua band, invero stellare, con Steve Vai alla chitarra, Gregg Bissonette alla batteria e Billy Sheehan al basso, il cui primo album esce nel 1986: Eat ‘em And Smile era decisamente un ottimo disco hard, non particolarmente impegnativo ma dotato di un suo stile (fondamentale il lavoro di Vai) e con brani memorizzabili (Yankee Rose, Tobacco Road, Bump And Grind e l’omaggio a Frank Sinatra di That’s Life).
Altro successone doppiato, nel 1988, da Skyscraper, prova anche migliore della precedente. Per quanto sia vero che l’hard della prima ora venga annacquato da tentativi, comunque spesso riusciti, di evadere dai confini angusti di quello stile, il risultato è il suo disco più vario e piacevole (a parte il successone del singolo Just Like Paradise, la title-track, Hina, e la ballata Damn Good, per quanto debitrice agli Zep di Jimmy Page, sono ottimi brani).
Passano tre anni, Vai e Sheehan mollano l’osso, iniziano i dolori. A Little Ain’t Enough, pur valendosi della chitarra del giovane talento Jason Becker (dovrà abbandonare la carriera dopo una diagnosi di SLA), è un disco che ritorna su classici stilemi hard e dove non c’è quasi nulla da ricordare e niente che dia particolarmente fastidio. Alla fine, un disco anonimo, con pochissime parentesi di valore (Baby’s On Fire, il blues di Sensible Shoes). La carriera di Roth è in lampante declino, i fan dell’hard hanno già voltato lo sguardo altrove e quelli meno avvezzi, ma interessati, non trovano più appigli per seguirlo.
Servirà a poco chiamare Nile Rodgers per la produzione di Your Filthy Little Mouth (1994), che si rivelerà essere, nel suo pastiche di hard, blues, reggae e quant’altro, l’opera meno riuscita del suo artefice. Finisce l’epoca Warner e quanto succederà dopo (poco, inclusa un’inoffensiva reunion con i Van Halen) non lascerà il segno.