In una carriera ormai più che trentennale, mai David Eugene Edwards aveva pubblicato un disco unicamente a titolo personale. Sì, il suo nome era già comparso qualche anno fa sulla copertina di Risha, album realizzato a quattro mani con Alexander Hacke degli Eistürzende Neubauten, ma in tutti questi anni, pur di fatto essendone anima e songwriter, era attraverso delle band che aveva inteso veicolare la sua musica.
Sciolti da tempo i 16 Horsepower, nell’ultimo ventennio è soprattutto con i Wovenhand che Edwards ha pubblicato musica, spostandosi dal suono folk gotico degli inizi verso musiche progressivamente sempre più elettriche e rumorose, imparentate col post punk e con le più oscure propaggini wave. Pochi giorni fa, poco prima di giungere a Milano per una delle sue date del tour italiano, ha invece pubblicato Hyacinth, il per l’appunto atteso esordio a suo nome.
Il sospetto forte è che il disco sia il frutto del periodo d’isolamento dovuto alla pandemia, momento di sofferenza e clausura, esorcizzato attraverso la musica e al ricorso a immagini e metafore che si rifanno al Mito. Non un qualcosa di radicalmente nuovo per lui comunque, considerando inoltre il fatto che il disco non ha segnato un ritorno al folk, esprimendosi piuttosto attraverso darkeggianti canti ritualistici, immersi in bordoni elettrici, rifrazioni di suono e una cornice apocalittica messa in piedi grazie al contributo di uno che di queste cose se ne intende, il produttore e musicista Ben Chilsolm (lo ricorderete quantomeno a fianco di Chelsea Wolfe).
Queste atmosfere sono state ricreate anche dal vivo al Biko di Milano. Ad attenderlo, così a occhio, un centinaio di persone, sicuramente troppo poche vista la caratura del personaggio. Il palco è immerso nell’oscurità, anche per dar modo ai bei visuals proiettati sullo sfondo di fare il loro lavoro.
Edwards, look da fuorilegge western, magari di origine indiana, imbraccia una chitarra acustica, giusto in un paio di casi una sorta di liuto, ma di fronte a sé ha un’imponente pedaliera d’effetti e distorsioni. Al suo fianco un’altro musicista all’elettrica (suonata sempre con l’archetto per creare dei drones) e alle percussioni ellettroniche, temo in realtà prevalentemente in base, come molti, forse troppi dei suoni che si sono sentiti qui stasera.
Il carisma di Edwards non si discute, e infatti lo show ha avuto dalla sua intensità e forza, ma, a parere di chi scrive, questa sarebbe stata ancora maggiore se avesse deciso di affidarsi unicamente alla sua voce e a una chitarra acustica, senza riempire le canzoni di effetti su effetti, voci fantasmatiche, rinforzi di chitarra e altro ancora, come si diceva, prevalentemente veicolate da basi.
Ovviamente la scaletta è stata dominata da Hyacinth, non solo per il numero di canzoni eseguite, ma anche perché pure quando si è trattato di pezzi dei 16 Horsepower (come la Hutterite Mile con cui ha aperto), o dei Wovenhand, o persino un traditional come Outlaw Song, il tutto è stato ricondotto alle sonorità dell’ultimo album, dando al concerto un tono uniforme, plumbeo e sciamanico, anche se forse un filo monocorde.
Se devo citare i due momenti che mi hanno emozionato di più, entrambi sono arrivati nel finale con due brani dei Wovenhand, ovvero una All Your Waves intrisa di tradizione folk e una davvero ficcante Whistling Girl nell’unico bis concesso.