Ci sono momenti in cui il rock è capace di regalare la felicità, cosa piuttosto rara di questi tempi, quella sensazione che solitamente si prova quando si è innamorati. Non sono innamorato di Adam Duritz ma quando la sera del 23 novembre all’Alcatraz di Milano, dopo uno show splendido ed emozionante, con le luci che si accendevano, la band uscita dal palco e le note forti di California Dreamin’ sparate dagli altoparlanti che riempivano l’aria, lui ancora lì, instancabile, seduto sulle spie, parlando col pubblico e promettendo di ritornare presto, guardandomi attorno ho visto i due mila e ottocento presenti col sorriso sulle labbra e l’effluvio emotivo che usciva dai loro corpi.
Magia del rock n’roll, realtà di una band che maneggia la materia con grazia e cattiveria e di un cantante magnetico, carismatico, istrionico che si fa rapire e coinvolgere dalle sue canzoni come lo stesso pubblico che lo ascolta, travolto dalle note e dai versi in un viaggio dove lui recita una bohéme che immancabilmente finisce col trafiggere il suo e il nostro cuore. I Counting Crows sono una band da difendere con tutte le forze, non è facile essere classici e moderni nello stesso tempo, e tantomeno unire dolcezza e asprezza con la stessa credibilità, fremiti pop da successo radiofonico e spigolature rock da road band, echi folk e furia grunge, bisogna possedere una chimica da grande band, cosa che i Counting Crows hanno, ultimi discendenti in ordine di tempo di quella dinastia di “orchestre” americane nata con The Band.
E poi c’è lui, Adam Duritz, improbabile rockstar in t-shirt nera fradicia di sudore, pancetta pronunciata, intellettuale e folle con occhiali, barba e turbante di capelli neri con dreadlocks a ricordare un incrocio tra un rasta di un centro sociale e Caparezza, che canta, parla, gesticola, recita, incita, invita al cielo e alla terra, inscenando una sorta di teatro che al rock unisce un racconto di emozioni, viaggi, città, amori e luoghi come fosse un inarrestabile flusso di coscienza. O lo si ama o lo si odia. Lo hanno amato all’inverosimile i presenti all’Alcatraz la sera del 23 novembre, elfo metropolitano di uno show che i Counting Crows traducono in sferzate elettriche, arioso pop e melodie che salgono come una lirica di Van Morrison, per poi inabissarsi in un dedalo di spigolature grunge e poi risorgere con ballate di un romanticismo da pelle d’oca, che sai quando iniziano e non immagini come finiscono. Una band che riesce ancora a tanti anni da quel successo radiofonico di Mr.Jones che li scaraventò nel mondo del pop a mantenere col pubblico la genuina spontaneità di un gruppo di amici che suona per stare insieme, divertirsi e vivere, come quando erano solo una college band e non se li filava nessuno. Basta vedere Duritz invitare sul palco Lucy Rose e i suoi musicisti che avevano fatto da supporter, ad unirsi a loro in una canzone, non nell’encore finale come in genere succede ma in un momento di un concerto ancora lungo, per capire che i Counting Crows sono tutto fuorché delle rockstar. I Counting Crows hanno i piedi per terra pur facendoci sognare, show magistrale, di quelli che ridanno fiato alla sinergia tra artista e pubblico, Adam Duritz, come Eddie Vedder, ha il potere di portare in estasi più di una generazione di ascoltatori.
L’inizio è magnetico e palpitante, non poteva essere che Round Here per chi conosce i tanti live del gruppo, il quale disposto con due chitarristi, un bassista, pianista ed organista che diventa fisarmonicista, l’immenso David Immergluck che suona un po’ di tutto, dal mandolino alla chitarra alla pedal steel ed un batterista spettacolare, è un grande insieme sonoro di classicità rock agile però nel passare dalla furia grunge di 1492 al pop anni 80 di Big Yellow Taxi, rivisitazione del celebre brano di Joni Mitchell, agli accenni country di Cover Up The Sun, una delle sei tracce estratte da Somewhere Under Wonderland, disco per il quale è stato allestito il tour. Dallo stesso disco usciranno la rockata Scarecrow, Possibility Days, God of Ocean Tides, Earthquake Driver e all’inizio del bis la romantica Palisades Park, forse non ancora assimilate dal pubblico sebbene applaudite con calore. Pubblico che invece mostra una straordinaria partecipazione quando partono le note di una sbrigativa Mr.Jones, vestita sobriamente e di una Omaha dall’irresistibile appeal lirico. La stesso entusiasmo viene riservato alla seducente Miami, alla lenta Colorblind tratta dal lontano This Desert Life e alla commovente A Long December, ritrovata quasi per incanto.
Che non sia una pop-band come tanti negli anni l’hanno accusata di essere, lo si sente dalle cover scelte per la serata, non c’è Girl From The North Country di Dylan come molti si aspettavano ma Like Teenage Gravity di Kasey Anderson, dal devastante finale elettrico, e l’oscura Blues Run The Game di Jackson C.Frank, folksinger vissuto la stagione di un unico disco e poi scomparso, rifatta in rigorosa veste acustica a due con Duritz e Immergluck. Naturale che uno show così intenso in cui mai, neanche per un attimo, c’è stato calo di tensione avesse una apoteosi finale tale da ricordarlo come uno dei migliori concerti dell’anno visti a Milano.
Dopo Mercy, seconda estratta del disco di cover Underwater Sunshine e dopo il folk di Blues Run The Game, il set riprende le sembianze di una grande festa con Hangin’ Around per poi infilarsi nell’encore con Paliasades Park, traccia di apertura del nuovo disco e nell’ascesa al cielo di Rain King e Holiday In Spain, un vero pianto di gioia.