Considerando il cognome e i genitori che si è ritrovata Charlotte Gainsbourg, si potrebbe essere portati a pensare che per lei non sia stato facile trovare una propria strada, farsi riconoscere come artista autentica, far dimenticare insomma il proprio essere figlia d’arte. E invece, fin da quando aveva appena tredici anni, si è subito buttata nel mondo del cinema e della musica, diventando nel primo un’apprezzata attrice internazionale, attiva soprattutto nel cinema d’autore (ha recitato per registi come Lars Von Trier, i Taviani, Patrice Leconte, Wim Wenders, Michel Gondry, Arnauld Desplechin, per non citarne che alcuni tra i tanti) e nel secondo una figura di riferimento del pop francese, molto apprezzata anche dalla critica, in special modo coi suoi ultimi album, Stage Whisper del 2011 e il più recente Rest, uscito l’anno scorso.
Cancellati gli spettacoli previsti per la scorsa estate, Charlotte ha recuperato con questo concerto al Fabrique di Milano, non pienissimo, ma neppure disertato da un pubblico evidentemente desideroso di accoglierla con calore.
La scenografia è semplice, ma d’effetto, con dei quadrati fatti con dei neon ad incorniciare i musicisti e ad addobbare il palco. Luci sempre rigorosamente bianche per tutto lo show, provenienti dai quadrati o di taglio da dei fari ai lati; lei quasi sempre al centro, in piedi o alla tastiera, mentre ad accompagnarla c’erano un paio di multistrumentisti (chitarra, basso e tastiere), un batterista, un tizio a synth ed electronics e un cantante per cori e seconda voce.
L’ossatura della scaletta è basata in larga parte sulle canzoni di Rest, saccheggiato fin dall’inizio con la tripletta Lying With You, Ring-a-Ring O’ Roses e I’m A Lie. Il suono è fortemente basato sulle tastiere e il tutto figura come una sorta di pop elettronico abbastanza etereo. Charlotte, anche quando saluta o presenta le canzoni prima di eseguirle, appare naturalmente affascinante, eppure quasi timida o comunque senza particolari smanie da protagonista. Mantiene insomma quel carattere da anti-diva che da tempo si è cucita addosso. Se la cosa è per certi versi apprezzabile, c’è da dire che questo suo non essere propriamente un animale da palco smorza un po’ l’eccitazione dello spettacolo, qui e là vagamente teatrale (o comunque decisamente studiato) nell’esposizione.
Nei momenti in cui la musica si fa più ritmata, tra electro-pop e disco-funk, le cose si fanno più esaltanti, con momenti da ricordare in pezzi come Paradisco e soprattutto con l’ottima Deadly Valentine, tra l’altro offerta in una versione allungata e pulsante, ancor più evocativa grazie al bel gioco di luci.
Come l’ ultimo album, anche lo show è stato dedicato alla sorella morta suicida, Kate Barry, ricordata attraverso la canzone che ne porta il nome. Nell’encore, una cover di un pezzo di Kanye West (Runaway) e la chiusa con la scandalosa Lemon Incest, all’epoca della sua uscita duetto col padre Serge Gainsbourg.
Non del tutto my cup of tea e un po’ monocorde, si è trattato comunque di un concerto elegante e non privo di un certo conturbante fascino.