CASE/LANG/VEIRS
case/lang/veirs
ANTI
***½
Si sono conosciute e hanno collaborato per la prima volta in occasione di Warp And Weft (2013), l’ultimo album della terza. Poi la seconda ha chiamato la prima, suggerendo di fare un disco tutte e tre insieme. Si sono chiuse a Portland, Oregon, nello studio casalingo della terza, con il coordinamento del produttore Tucker Martine (storica spalla dei Decemberists), provando a registrare canzoni che non sembrassero un mero collage dei reciproci stili ma entità nuove, in grado di esaltare le rispettive personalità e riconfigurarne i tratti.
E ci sono riuscite, perché questo Case/Lang/Veirs, invece di limitarsi a capitalizzare sulla scrittura indie di Neko Case, sui virtuosismi vocali di K.D. Lang e sul folk intellettuale di Laura Veirs, sfugge a ogni tentativo di organizzazione predeterminata per rimandare all’urgenza di esplorare nuove strade. Al centro di tutto, ancora una volta, c’è il racconto delle incomprensioni, delle difficoltà talvolta insormontabili dei rapporti, dell’imprevedibilità delle relazioni umane, simboleggiato dall’omaggio all’anima tormentata di Judee Sill estrinsecato in una Song For Jude ed’ineffabile impronta country-pop.
Delle tre, almeno a giudicare dalle sfumature jazzy meditate e sensuali di Honey And Smoke e 1000 Miles Away, la più incline alle (auto)citazioni dal proprio stile, nondimeno sempre proposte con classe, eleganza e garbo, è stata proprio Lang, d’altronde anche quella con la carriera più lunga e riconoscibile alle spalle. Case e Veirs, dal canto loro, hanno ricamato il folk-rock elettroacustico di Greens Of June, Behind The Armory o Supermoon con sicurezza e senza cedimenti, stando addosso alle note come per dominarle pur lasciando affiorarne la fisicità a volte repressa nelle opere soliste (ascoltate per esempio il gioioso fluire di archi, ottoni e onomatopee vocali della vivace Best Kept Secret).
Nei momenti migliori l’inedito trio ha agito come uno dei girl-group degli anni ’50 e ’60, intrecciando voci, cori e strumenti con estrema naturalezza, ma ogni volta avvolgendo i propri brani in un alone di densa malinconia, percepibile nell’iniziale Atomic Power (in pratica, i Louvin Brothers in chiave alt.pop) come nella sublime melodia retrò, alla Shangri-Las, di Delirium, nell’architettura sonora tra Beach Boys e Joni Mitchell della soffice Why Do We Fight come nell’ipnotico e spoglio congedo della conclusiva Georgia Stars.
Ci sono molte soluzioni diverse, in Case/Lang/Veirs, forse troppe per convincere in modo uniforme e rendere ugualmente interessanti tutti e quattordici i brani in scaletta, eppure, a risultare persuasiva fin dal primo ascolto, è la sua cura artigianale per suoni e atmosfere, la sua voglia di eludere i luoghi comuni della canzone d’autore al femminile, la sua ricerca di senso e valore portata avanti chiedendo agli estimatori (in modo particolare a quelli di lunga data) di accettare un minimo di spiazzamento anziché il banale riconoscersi nel già sentito. E per chi accetterà la sfida, anche nel paesaggio glaciale e remoto della copertina non sarà difficile intravedere qualche raggio di sole.