Ci sono voluti quasi quindici anni affinchè i Calexico e Iron & Wine si incontrassero di nuovo in uno studio di registrazione con la voglia di dare un seguito a quel primo EP In The Reins uscito nel 2005, ma alla luce delle incantevoli atmosfere di un piccolo gioiello come il nuovo Years To Burn e soprattutto della brillante performance dal vivo dello scorso 22 luglio al festival TRI.P di Milano, l’attesa non è stata vana. Nel frattempo molte cose sono cambiate, prima di tutto il mondo della musica, ma anche l’attitudine dei Calexico, che hanno fatto talmente tanta strada che se non fosse appena uscita la ristampa di The Black Light, probabilmente non ci si ricorderebbe nemmeno più da dove sono partiti e non di meno Sam Beam che è diventato uno dei cantautori più ispirati della sua generazione. Tuttavia lo spirito e l’entusiasmo sembrano quelli di un tempo, almeno a giudicare dalla maniera in cui hanno gestito le personalità e ordito le fila di una fragrante Americana nel corso di uno splendido concerto che ha chiuso la parte all’aperto della rassegna estiva collocata in uno degli spazi più suggestivi di Milano come i giardini della Triennale.
Sono da poco passate le 21 quando Joey Burns (voce e chitarra), John Convertino (batteria) e Jacob Valenzuela (tromba e cori) dei Calexico insieme a Sam Beam (voce e chitarra), Rob Burger (tastiere, lap steel e fisarmonica) e Sebastian Steinberg (basso) degli Iron & Wine guadagnano il palco accolti dagli applausi di un pubblico giovane e numeroso, che nonostante le temperature elevate e il fastidio delle zanzare non si è lasciato sfuggire l’occasione di assistere allo spettacolo. Non che ci fossero particolari scenografie o elaborati costumi di scena, tutto è molto sobrio e informale, ma bastano le prime note dell’epifania country folk di Father Mountain per immaginare le meraviglie dell’Arcadia, le distese delle praterie e i paesaggi dell’America selvaggia, evocati dagli aerei volteggi elettroacustici di una band che suona con estro ed eleganza seguendo gli umori di quel “triste sentire”, per usare le parole di Sam Beam, che in qualche modo pervade la scenografica mescola di country cosmico, melodia pop e sussurri folk imbastita dai musicisti sul palco.
Il suono è ricercato, morbido e affascinante con Beam e Burns che si alternano alle lead vocals e armonizzano spesso all’unisono, Convertino che percuote le pelli con eleganza da jazzista, Steinberg che passa dal contrabbasso al basso elettrico con assoluta nonchalance, Valenzuela che sbuffa assolo sospesi tra i mariachi e Miles Davis e Burger che riempie gli spazi con un’organo e una fisarmonica che fanno molto The Band. In generale sembra prevalere il quieto mood delle ballate country folk di Iron & Wine piuttosto che l’aria di festa dei Calexico e il repertorio pesca tanto dall’EP del 2005 quanto dal nuovo disco, mettendo subito in fila He Lays In The Reins, Prison On Route 41, Follow The Water e la bellissima Midnight Sun, ma succede anche che il concerto prenda traiettorie centrifughe con una spettacolare Red Dust che trasforma un giro di blues in una psichedelica jam di acido funky o con l’esotismo latino di una vivace Flores Y Tamales.
Il pubblico assiste incantato e i due frontmen sul palco sembrano divertirsi, sorseggiando un calice di vino, scambiandosi le canzoni, prendendosi in giro o scherzando con l’italiano, in particolar modo nel corso di una breve parentesi hootenanny in cui da soli interpretano in acustico perle come Sunken Waltz, Bitter Truth, Falling From The Sky e la dolcissima Naked As We Came, prima che la band li raggiunga per il brano più complesso di Years To Burn, The Bitter Suite, un mosaico sonoro che incorpora canti mariachi, confidenze da folksinger e spaziose progressioni strumentali. Non è ben chiaro cosa centrino gli inglesissimi Echo & The Bunnymen con Calexico e Iron & Wine, forse una mal sopita passione dell’adolescenza, ma nelle loro mani Bring On The Dancing Horses suona perfetta e in tema con un certo immaginario western e con i suoni della frontiera: è un tocco di classe che avvia il concerto alla conclusione, non prima che vengano eseguite la bucolica Sixteen, Maybe Less, una Boy With A Coin dal registro più elettrico rispetto all’originale, la corale In Your Own Time e la cosmica What Heaven’s Left.
Sono trascorse quasi due ore da quando hanno cominciato ed è il momento dei saluti e della promessa di una prossima volta, ma gli applausi scroscianti del pubblico richiamano gli artisti sul palco per la titletrack del nuovo album Years To Burn, una dolce sinfonia folk che conclude il concerto con una piacevole nota di malinconia e la certezza di aver assistito ad un evento speciale e difficilmente ripetibile nell’immediato.