
Viene difficile, a sentirli oggi, immaginare che i tedeschi Bohren & Der Club Of Gore abbiano le loro radici nell’hardcore e nel doom e che il loro nome sia un omaggio agli olandesi Gore, in qualche modo antesignani di molto metal sperimentale venuto in seguito ai loro vecchi dischi. La musica che fanno, avvolgente, lentissima, sinuosa e notturna, parrebbe infatti porsi completamente all’opposto di quei generi.
Eppure, nonostante questo, ancora attirano un pubblico che, almeno in qualche caso, probabilmente è più facile vedere a un concerto di metal estremo, che non a quello di qualche combo jazz. Cito il jazz non a caso, perché è in quell’alveo che risiede ormai da tempo l’essenza del loro suono. Un jazz che definirei badalamentiano, atmosferico e ambientale, perfetto per le atmosfere oniriche e sottilmente inquietanti di un film di Lynch, capace di portarti in un qualche club fumoso alle prime ore del mattino, quando in giro sono rimasti soltanto gli avventori maggiormente persi nei fumi dell’alcol e che di tornare a casa non hanno nessuna intenzione.
Christoph Clöser (sax e vibrafono), Robin Rodenberg (contrabbasso, percussioni e synth) e Morten Gass (piano, organo, synth, percussioni e chitarra baritono) sono arrivati all’Arci Bellezza di Milano in una sera d’inizio aprile e l’hanno fatto ponendosi come una presenza assolutamente fantasmatica, in una sala completamente immersa nell’oscurità prima, durante e, almeno in parte, dopo il concerto, con persino il palco illuminato appena da delle lucine penzolanti dal soffitto, messe lì più che altro per permettere ai musicisti di vedere dove stavano mettendo le mani, mi viene da pensare (fare le foto in questa serata, m’ha fatto tornare ai cari vecchi tempi della D300, quando dovevo scattare a 1/30 o a 1/40 di secondo per riuscire a cavarci fuori qualcosa).
Il buio quasi totale, però, ben si adatta alla loro musica semi catatonica, dove il grosso del ritmo è dato da una spazzola che scorre su un rullante che gira incessantemente su sé stesso e dalle sparute note di un contrabbasso profondo, mentre il sax sbuffa melodie che evaporano nell’aria, una chitarra twanging ci porta in un club dalle parti di Twin Peaks e il distillato di note di un organo o di un piano elettrico si appoggiano ai fondali siderali di un synth glaciale.
Musica dalle rare e rade variazioni, che ti risucchia in un mood ovattato, lattiginoso, sottilmente inquieto e perturbante, dove la divisione fra un pezzo e un altro in fondo ha poco senso. Col suo inglese dal forte accento tedesco, pronunciato con una lentezza quasi esasperante, Clöser ha detto che i pezzi suonati stasera arrivavano in parte dall’ultimo Patchouli Blue (comunque del 2020), in parte dal repertorio passato, in alcuni casi anche molto remoto (l’esordio è del 1995), ma dire che si siano avvertiti grossi stacchi sarebbe, come accennato, non proprio vero. Il fatto è che proprio questo è stato il bello, questo loro minimalismo inossidabile e immutabile. Fascinosi assai.