Alcatraz gremito e pubblico caldissimo per il ritorno a Milano dei Blackberry Smoke nel tour promozionale di Be Right Here, sei brani estratti dall’album, tanti come i titoli presi da The Whippoorwill che si dimostra ancora, a dieci anni di distanza, il disco più amato dal gruppo e dal pubblico. Un sing-along collettivo, a dimostrazione dell’affetto che lega pubblico e musicisti, ha accompagnato l’intero spettacolo; l’abile Charlie Starr, perfetto come cantante e chitarrista, conosce il trucco per far ribollire le emozioni e la platea lo segue cantando i ritornelli delle canzoni, agitando le mani e non lesinando applausi.
Un karaoke collettivo quasi inaspettato per una band che si colloca nell’area del southern rock dove generalmente sono gli assoli di chitarra, lo stantuffo ritmico e le lunghe jam a fare scuola. Ma lo show dei Blackberry Smoke, pur rispettandola, è diverso da quella tradizione, le canzoni non sono mai troppo lunghe, le jam ridotte a qualche sporadica estensione psichedelica, il blues confinato agli assoli misurati ma efficaci della chitarra di Charlie Starr. Quest’ultimo spesso in dialogo con la slide del bravo Benji Shanks, mentre l’altro storico chitarrista, Paul Jackson, contribuisce col bassista Richard Turner alle armonie vocali, caratteristica di brani che equilibrano con gusto asprezze rock di natura sudista, ballate al profumo di California, infiltrazioni di country music.
Il risultato è un rock arioso, ben costruito nelle parti melodiche, cantato a più voci come si faceva lungo la costa ovest degli anni Settanta (anche il look dei sei sul palco pare estratto da un mercatino delle pulci di quegli anni), che ammalia per la sua essenzialità ma, a parere del sottoscritto, non si evolve mai in qualcosa di più travolgente. Belle canzoni, tecnica strumentale di prim’ordine, un frontman come Charlie Starr che ha numeri come autore e carisma, ma senza quel quid che fa la differenza. L’essenzialità esibita fin troppo compostamente, specie nella parte centrale del concerto (hanno suonato per due ore) finisce per tradursi in canzoni faticose da distinguere l’una dall’altra. È come se la loro macchina avesse solo cinque marce, manca la sesta, certamente si può viaggiare a velocità di crociera e divertirsi assaporando un rock che mette allegria e suggerisce qualche visione di America on the road, comunque assolutamente più personale di quanti, in nome della gloriosa bandiera del southern rock,scimmiottano gli Skynyrds con volumi e muscoli.
Contrariamente al nome del tour, il concerto non è partito con un brano di Be Right There, ma con Workin’ For A Workin’ Man. Ed è stato subito chiaro quale sarebbe stata l’atmosfera della serata, coinvolgente e dettata da una band che ha lavorato molto in termini di organizzazione collettiva rispetto alla prima volta in cui l’avevo vista, otto anni fa al Carroponte, quando ancora dietro ai tamburi sedeva Brit Turner, morto a 57 anni per un glioblastoma e ricordato sul palco da Charlie Starr. Così come è stato ricordato Tom Petty, nel giorno della sua morte, con una ripresa originale di Don’t Come Here No More.
Unica cover della serata assieme a Willin’ dei Little Feat, piazzata nell’encore assieme a robuste versioni, leggermente jammate, di Don’t Mind If I Do e Ain’t Much Left Of Me (tra le cose migliori dell’intero show). Sound saturo grazie alla compattezza della band, dove il tastierista Brandon Still, col suo Hammond, cuciva gli spazi a disposizione tra la sezione ritmica e le chitarre e Charlie Starr trainava il set con appeal da vendere, muovendosi, esortando il pubblico a seguirlo, cantando con convinzione e padronanza, mai dimenticando l’assolo giusto al momento giusto. In scena sono andate Azalea, Watcha Know Good, Like It Was Yesterday e Little Bit Crazy, con cui si è chiuso il concerto prima del generoso bis. Ma anche brani di The Whippoorwill come Ain’t Got The Blues e Sleeping Dogs,e pure brani più antichi estratti da Like An Arrow.
In conclusione, mi sembra che il più salutare attestato della loro esibizione sia il seguito che i Blackberry Smoke si sono saputi conquistare col loro lavoro nel corso degli anni, rimanendo una band popolare ed amata senza sconfessare la loro indole southern, facendo una musica che pur aggiornata alle cadenze della modernità è tutto tranne che ruffiana, banale o modaiola. Chapeau.