Con un album nuovo di zecca che già si sta profilando quale piccolo bestseller indipendente – tanto che persino al banchetto, qui nel locale, non era più disponibile fin da inizio serata – i Black Mountain sono tornati in Italia per un pugno di date, a pochi mesi di distanza dal tour che li aveva visti celebrare il decennale dell’esordio. Lo Spazio 211 è un bel club alla periferia di Torino – anni fa era sede di un bellissimo festival estivo, lo Spaziale Festival, che ci manca moltissimo, visto che contava sempre su line up fantastiche (Raconteurs, Sonic Youth, Wilco, per dire dei primi nomi passati da lì che mi vengono in mente) – e appare bello pieno, anche se non stipato all’inverosimile, come forse era lecito aspettarsi.
In apertura ci sono tali The Backhomes, una formazione a due che non avevo mai sentito nominare, ma che si sono rivelati una gran bella sorpresa. Canadesi anch’essi come i Black Mountain, sono autori di un pop-rock psichedelico ed oppiaceo, tutto costruito sul sound delle chitarre elettriche, dell’organo, di una drum machine e delle voci (sia maschile che femminile) dei due. Riverberanti ed ipnotiche, le loro canzoni hanno ricordato un misto tra Brian Jonestown Massacre e Moon Duo, con echi spacey, velvettiani e qualche scampolo folk. Magari non originalissimi, ma un gran bel sentire. Potete testarlo voi stessi qui.
Definito da loro stessi our strongest material to date, IV è per i Black Mountain un ritorno discografico di altissimo livello. Ne è stata testimonianza anche la sua resa live, considerato pure che, come prevedibile, i nuovi pezzi hanno fatto la parte del leone. Apparsi in formissima, molto determinati e contenti sia di essere su un palco a suonare, che della reazione del pubblico, Stephen McBean e compagni hanno convinto ancor più di quello che avevano fatto nelle date estive all’aperto, in parte anche perché l’atmosfera del club gli è probabilmente più congegnale. Anche Amber Webber è apparsa un po più sciolta e meno timida del solito, facendo svettare la sua bella voce e, in un pezzo, pure imbracciando una chitarra elettrica.
L’apertura è stata affidata alla doppietta che apre il nuovo album, quindi prima con una Mothers Of The Sun lunghissima e in bilico tra hard e acida psichedelia – con un McBean lanciatissimo sulla sua sei corde – e poi attraverso l’attacco selvaggio e krauto di Florian Saucer Attack. Da qui in poi, per oltre un’ora e mezza, hanno viaggiato nella loro discografia, mostrando tutti i tasselli di quel mosaico fascinosissimo che è il loro sound. Brani ormai considerabili quali classici come Stormy High, Druganaut, Tyrants o Wucan, si sono alternati ai nuovi pezzi, oscillando tra una ballata dagli umori wave come la stupenda Cemetery Breeding, il pulsare electro di You Can Dream, il lisergico folk visionario di Line Them All Up, la melodia memorabile di quello strano ibrido blues che è Defector. Da Wilderness Heart hanno suonato solo la traccia che titolava l’album, a conferma quasi del suo essere stato capitolo insolito nella loro discografia, mentre una citazione non può mancare per la chilometrica Space To Bakersfield, liquida e dilatata, un autentico trip, che ha avuto il compito di chiudere il set principale.
Nei bis spazio per altri due pezzi, quella ballata estatica e sognante che è Crucify Me e soprattutto per una Don’t Run Our Hearts Around forse mai così distorta, rabbiosa, selvaggia. Non fanno particolare scena sul palco i Black Mountain, da tutti i punti di vista si comportano come autentici anti-divi. Fanno parlare i loro strumenti però e ognuno dà il suo contributo per rendere memorabile ciò che si ascolta, dalla sezione ritmica propulsiva – dove è soprattutto il drumming dinamico di Joshua Wells a risaltare – agli interventi sempre fascinosi di Jeremy Schmidt e delle sue tastiere, fino ovviamente alle voci della Webber e di McBean e ai molti accenti tirati fuori dalla sua chitarra da quest’ultimo. Grandissima band e gran concerto.