Passano anche dall’Italia, sia pur con solo una data unica al Magnolia di Milano, i canadesi Black Mountain, con il loro tour in cui festeggiano i dieci anni dalla pubblicazione del loro disco d’esordio (per l’occasione ristampato di fresco, rimasterizzato e con un secondo CD aggiunto). In apertura i milanesi Giobia, davvero bravi ed efficaci nel riversare sul pubblico la loro psichedelia lisergica ed ultra riverberata, tra pulsioni ipnotiche, tanta distorsione ed un sound variegato il giusto. Il loro set scorre piacevole per una mezz’ora abbondante, poi rapida sistemazione del palco e un po’ prima delle 11 è la volta dei Black Mountain. L’assetto è quello classico – anche se c’è da rilevare l’ingresso di un nuovo bassista, Johnny Ollsin, al posto di Matt Camirand – con Stephen McBean a voce e chitarra, Amber Webber a voce e percussioni, Jeremy Schmidt alle tastiere e Josh Wells alla batteria. I cinque non sono tipi interessati a mettere in scena chissà quale rutilante spettacolo; quello che gli interessa, ed è la cosa più importante, è la musica, e su quel versante sanno come far parlare gli strumenti e come rendere personale e stuzzicante un coacervo d’influenze classicissime, attinte a piene mani dagli ultimi 40 anni di storia del Rock. Così come nei loro dischi si rincorrono, si mescolano e s’alternano classic rock, psichedelia, hard, prog, folk, kraut-rock, anche dal punto di vista delle dinamiche interne, mostrano una costituzione a tasselli: McBean sembra essere l’anima rockettara a 360°, capace di passare dai riff più potenti, ai più liquidi passaggi chitarristici (e non dimentichiamoci il suo grande talento di songwriter); nelle tastiere di Schmidt ritroviamo i passaggi più legati al prog, vi si respirano gli umori di un’elettronica vintage, tornano a galla le pulsazioni più spaziali del kraut-rock; la Webber ci aggiunge un pizzico d’incantata sensualità ed il lirismo del suo vibrato; infine, la muscolare e potentissima sezione ritmica, dà quella spinta punk che rende il tutto una macchina di notevole dinamismo. Non sono così facilmente incasellabili come sembrerebbe, i Black Mountain, e lo hanno dimostrato pure coi due pezzi nuovi presentati stasera (che andranno a far parte di un nuovo album previsto per l’anno prossimo), un’accattivante e groovata Defector, dagli umori insolitamente black, e la lunga Mothers, con cui hanno chiuso lo show tramite l’unico encore concesso, uno di quei pezzi ondivaghi fatto di oasi di quiete e ripartenze killer, in cui McBean e la Webber si alternano al canto e dove Schmidt ha modo di ergersi, muovendo le mani sui suoi vari synth. Tutto il resto della scaletta s’è basata invece su brani tratti dai primi due album, a partire da una Modern Music veloce e ficcante, passando per i riff di Stormy High, per le rifrazioni psichedeliche di Tyrants e Wucan, per un pezzo come sempre splendido come Set Us Free. Pagato pegno agli Stones con una sferragliante e rock’n’rollistica No Satisfaction, i momenti migliori sono arrivati con una Druganaut battente e spiraliforme; con una versione fiume e dilatatissima di No Hits, trasformata in un flusso improvvisativo di acidi suoni in libertà, per oltre un quarto d’ora di allucinato space-rock; con una Queens Will Play in buona parte sulle spalle della Webber; con l’apoteosi chitarristica di Don’t Run Our Hearts Around. Gran bel concerto, con l’unico appunto che un po’ più dell’ora e venti che hanno suonato, non sarebbe stata brutta cosa.