BLACK MOUNTAIN
IV
Jagjaguwar/Goodfellas
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Non contando la recente ristampa del primo, omonimo album e la pubblicazione della colonna sonora del film Year Zero (comunque uscita nel 2012), erano ben sei anni che i Black Mountain non pubblicavano un album nuovo, dai tempi del loro terzo disco, l’ottimo Wilderness Heart. È pur vero che tra Pink Mountaintops e altri progetti collaterali vari non se ne sono stati con le mani in mano, però comunque un gran bel lasso di tempo.
Tornano oggi con IV, un disco che per l’ennesima volta dimostra le capacità ricombinatorie della compagine canadese guidata da Stephen McBean. Come detto altre volte in passato, infatti, non c’è molto di realmente nuovo nella loro musica, la loro è evidentemente un’attitudine retrò, però il modo brillante in cui rimescolano carte risapute e soprattutto l’abilità nello scrivere canzoni capaci d’imprimersi con inossidabile forza nella memoria, ne fa una delle formazioni rock fondamentali degli ultimi dieci anni, in qualche modo anche simbolo di quello che sta accadendo in campo musicale nel nuovo millennio.
IV è quindi l’ennesimo turbinio di hard-rock, psichedelia, prog, space-rock, infarcito d’inflessioni kraut-elettroniche, ma pure folk, blues, classic-rock. Come si può vedere da questo confusionario elenco, un blend di cose riconoscibilissime eppure inafferrabile, non sintetizzabile univocamente se non sotto il cappello Black Mountain appunto, il che è un modo come un altro per certificarne l’inestricabile originalità. In bilico tra la visionarietà del capolavoro In The Future e la varietà dell’esordio, il disco si apre su uno dei loro caleidoscopici moloch prog-psichedelici, Mothers Of The Sun, dove furoreggiano sia gli assoli di McBean che i synth vintage di Jeremy Schmidt.
Subito dopo, Florian Saucer Attack (titolo geniale!) incalza attraverso riff proto-punk e la voce insolitamente grintosa di Amber Webber. Defector, a due voci, assembla synth carpenteriani in una ballata dall’aura cosmic-blues; You Can Dream è un mantra melodico che cita i Suicide lasciando fluire chitarre liriche ed elettronici effetti space e retrofuturistici; Constellations appaia un riff rock che più classico non si può, ai filamentosi fraseggi di synth; Line Them All Up, tutta nelle mani di Amber, è un’avvolgente e visionaria ballata acustica psych-folk; bellissima Cemetery Breeding, altra ballata la cui melodia aperta contrasta con un mood dark di fondo.
A dir poco onirico il finale, con tre pezzi che da soli occupano quasi venticinque minuti (in un disco che dura quasi un’ora): (Over And Over) The Chain, mesmerico intro droning e poi giù a rotta di collo lungo le traiettorie di una psichedelia tribale ed ipnotica, dalle chitarre acide; Crucify Me, ballata zeppeliniana lisergica e sognante; Space To Bakersfield, un liquido trip pinkfloydiano, fatto d’amniotiche tastiere e chitarre wah wah. Produzione di Randall Dunn. Imperdibile!