Nel corso della sua vita breve e sfortunata, Billie Holiday ha interpretato, da attrice, un’unica pellicola hollywoodiana, peraltro non eccezionale, ma dalla storia produttiva ricca di curiosità, aneddoti e, appunto, cinema. È la fine degli anni ’30 quando Orson Welles, già celebrità radiofonica grazie ai microfoni della CBS, sbarca in California presso la RKO Pictures di George Schaefer, al quale riesce a strappare un contratto recante la concessione di un completo controllo artistico per i tempi a dir poco inaudito. Da sempre appassionato di jazz, Welles progetta un omaggio alle origini del genere, al suo viaggio dai bordelli della Louisiana alle periferie di Chicago e New York, basato in parte sulla storia personale di Louis Armstrong e in parte sulle vicende dell’amatissima Creole Jazz Band di King Oliver; l’intento dell’artista è quello di dar voce «ai neri che hanno inventato il jazz, non ai bianchi che l’hanno trasformato in profitto».
Perennemente ammalato d’ambizione, Welles scrive un lungo e tortuoso soggetto (ambientato negli anni dal 1899 al 1940) segnato dalla stessa propensione al racconto epico poi sfociata in Quarto Potere (Citizen Kane, 1941) e nell’Orgoglio Degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), contatta l’esule Eliott Paul per stendere la sceneggiatura, assume Duke Ellington in veste di consulente musicale e ingaggia personalmente Billie Holiday (pare tra i due vi sia stata anche una breve relazione) come interprete sia del film, sia di buona parte della colonna sonora. Il lavoro, tuttavia, non va in porto: benché parte del girato sia sopravvissuta (e affiorata più di quarant’anni dopo in The Story Of Jazz, primo segmento dell’opera di montaggio It’s All True [1993]), la prospettiva wellesiana di realizzare un film dalla parte degli afroamericani, rendendoli protagonisti di una produzione dal bilancio elevatissimo, spaventa a tal punto gli investitori da spingere costoro a promettere al giovane regista un’autonomia ancora maggiore in qualsiasi altro progetto su cui intenda cimentarsi (difatti Quarto Potere costerà alla RKO una perdita secca di 150’000 dollari).
Eppure, considerata la continua e anzi crescente popolarità di dischi e concerti jazz su entrambe le coste della nazione, l’intuizione di Welles resta in qualche modo appetibile. Se ne appropria, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la United Artists, che fa riscrivere il trattamento, assume un mestierante affinché diriga un musical (Arthur Lubin, regista di diversi spettacoli filmati di Gianni e Pinotto) e impone due protagonisti bianchi: così, trasformato nella storia d’amore tra un’impresario di buon cuore e una cantante servita da una domestica nera (appunto la Holiday), La Città Del Jazz (New Orleans, 1947) registra buoni incassi al botteghino e consente agli storici del genere di assaporare alcune strepitose performance di Louis Armstrong, Billie Holiday e Woody Herman. Da evitare nell’agghiacciante versione italiana, dove Louis “Satchmo” Armstrong diventa non si sa perché «Sambo» (retaggio colonialista dei nostri doppiatori?) e il clarinettista Herman si ritrova la voce, viziata da un’evidente inflessione romanesca, di Alberto Sordi, il lungometraggio mostra la Holiday alle prese con una malinconica versione del classico Do You Know What It Means To Miss New Orleans (scritta apposta per la pellicola), con una straziante Farewell To Storyville e con la più swingata The Blues Are Brewing, tre esibizioni che sono un monumento alle sue qualità di cantante (di gran lunga superiori a quelle d’attrice) prima della repentina scomparsa del personaggio più o meno a mezz’ora dalla fine del film. Se da un lato le leggi non scritte del maccartismo costringevano infatti gli studios a ridurre, se non a defalcare, le parti confezionate per attori e artisti di colore, anche la forte dipendenza da eroina della Holiday (rifornita dal fidanzato dell’epoca, Joe Guy) aveva contribuito a creare non pochi problemi sul set. Impossibile, del resto trovare una sequenza di immagini davvero in grado di restituire le emozioni suggerite dalla voce dell’artista, pochissimo estesa e nondimeno in grado di trasmettere un doloroso senso di perdita, tristezza e disperazione in ogni nota, un sussurro fragile a riflettere tutte le angosce e tutti gli abissi dell’animo umano. Anno dopo anno, più l’estensione di Billie Holiday, provata dall’alcol, dalla droga, dalle lacerazioni della vita, andava restringendosi, più diventava evidente la fatica delle corde vocali, più il fiato iniziava a rarefarsi, e più quella stessa voce, sempre perfettamente capace di improvvisare sulla linea melodica dei brani e di farlo persino nella durata delle singole parole (allungate o contratte a piacimento), si faceva specchio di un tormento universale. La voce di Billie Holiday, in questo più simile a una Edith Piaf (del resto, la tragica My Man della Holiday altro non è se non la Mon Homme della Piaf) che alle colleghe Ma Rainey e Bessie Smith, si sgretolava anziché fortificarsi.
Un motivo di fascino, senza dubbio, e di numerosi equivoci, per esempio quelli alla base del poco riuscito La Signora Del Blues (Lady Sings The Blues, 1972), coproduzione targata Motown e Paramount con una Diana Ross, da poco separatasi dalle Supremes, troppo glamour nei panni della cantante (ma se non volete farvi male state lontani dal dvd del film, peraltro riversato nello scintillante formato anamorfico del widescreen 1.85:1, per non vedere il breve documentario Behind The Blues, con una Ross resa tristemente irriconoscibile dal botulino). Lontanamente basato sull’autobiografia dell’artista, Lady Sings The Blues (1952), scritta a quattro mani con il giornalista William Dufty e tradotta in italiano nel 1959, per Longanesi, col titolo di La Signora Canta Il Blues, la pellicola, di enorme riscontro in patria, viene però diretta dall’artigiano canadese Sidney J. Furie (bravo regista ancorché, come dimostrato dall’ottimo Ipcress [The Ipcress File, 1965], più a suo agio con intrighi e atmosfere da thriller) cedendo a un’esplosione di luoghi comuni il più intollerabile dei quali consiste nell’aver ritratto l’artista quale donna passivamente succube di ogni genere di sventura. L’aura di commiserazione costruita dal film intorno alla sua protagonista contrasta nettamente con l’immagine della Holiday tramandata da storici e collaboratori, e malgrado la straordinaria prova della Ross, cui non avrebbe comunque arrecato alcun danno un minimo di controllo in più (nominata per il premio Oscar, fu sconfitta dalla Liza Minnelli di Cabaret), nella statica prevedibilità del lavoro l’unico elemento di costante sorpresa è la superficialità con cui regia e sceneggiatura mistificano la durezza amara della vita dell’artista (bisessuale, masochista e parecchio incline a infliggere e ricevere diversi tipi di violenza fisica) nel racconto qualsiasi di una donna-bambina sempre a un passo dal ricevere la salvezza, garantita ovviamente dall’amore giusto, e altresì condannata dal destino a non assaporarne gli esiti. Dal punto di vista della veridicità storica, è irricevibile l’indulgenza con la quale viene dipinto Louis McKay (nel film il Billy Dee Williams, «il Clark Gable nero» secondo i tabloid degli anni ’70, di lì a poco al centro di un biopic televisivo sul pianista ragtime Scott Joplin), criminale e sicario di mezza tacca rappresentato come un possibile redentore solo in virtù del suo (minimo) contributo all’operazione, ma il vero problema della Signora Del Blues, al di là della relativa aderenza alla realtà dei fatti (in fondo opzionale per qualsiasi pellicola) e di una inappuntabile prova di Richard Pryor nei panni drammatici del fidato “Piano Man”, risiede in una formula del racconto infarcita di kitsch e soluzioni narrative talmente semplicistiche da ricordare i soggetti di certe telenovele di quart’ordine.
Per ottenere qualche flash impressionista sull’arte e sulla poetica di Lady Day, soprannome coniato per la Holiday dal sassofonista tenore Lester Young (lei lo chiamò sempre Prez, contrazione di president: fu l’unico uomo, da lei adorato, a trattarla come un padre), bisogna quindi rivolgersi al settore dei documentari, spesso peraltro facilmente reperibili con un rapido giro in rete. Billie Holiday – The Life And Artistry Of Billie Holiday, consultabile integralmente su dailymotion.com, è un breve lavoro di editing (28 minuti) dove si assemblano tutte le apparizioni cinematografiche della cantante, da un primo corto dedicato a una partitura omonima di Duke Ellington (Symphony In Black: A Rhapsody Of Negro Life [1935]) allo speciale televisivo della CBS The Story Of Jazz (registrato nel 1957, appena due anni prima della morte dell’artista). Molto interessante, nonché confezionato con la proverbiale professionalità dagli specialisti inglesi della BBC per il programma Reputations, è Sensational Lady, del 2001 (lo trovate su YouTube), che accorpa materiali d’archivio abbastanza rari, interventi delle scrittrici Alice Walker e Maya Angelou e numerose interviste a conoscenti e collaboratori della Holiday (tra questi il suo pianista, Bobby Tucker).
Sulla stessa falsariga ci sono The Many Faces Of Billie Holiday, diretto 25 anni fa da Matthew Sieg, produttore di Robert Altman, e il curioso Strange Fruit (2002), in pratica un piccolo saggio firmato dal regista Joel Katz sulla genesi della canzone eponima, scritta non dalla Holiday (anche se a lei piaceva dire di averlo fatto) ma da un insegnante del Bronx, un nero di origine ebrea di nome Abel Meeropol.
A essere sinceri, la pagina di cinema (non è un ossimoro) più bella e intensa di tutte, circa la vicenda umana e artistica di Lady Day, l’hanno scritta due fumettisti, gli argentini Carlos Sampayo (testi) e José Antonio Muñoz (disegni), insomma i creatori del disilluso investigatore privato Alack Sinner, nel loro Billie Holiday, romanzo a fumetti uscito per Fantagraphics nel 1991 e arrivato da noi due anni dopo, per i tipi di Rizzoli/Milano Libri (questo per quanto riguarda le edizioni in volume, perché le prime apparizioni delle 49 pagine dell’opera, sia detto per una volta con una punta d’orgoglio, risalgono ai numeri di agosto e settembre 1990 della defunta rivista Corto Maltese). Non si tratta di una biografia ma, come dire?, di un’ipotesi sentimentale (resa attraverso il lavoro di ricerca di un giornalista) intorno alla figura della cantante, che le parole sanguinanti di Sampayo cristallizzano intorno ai temi del razzismo, della tossicodipendenza, della complicità con Lester Young, delle angherie private e dei soprusi patiti per colpa di compagni maneschi e autorità intolleranti, e le matite contrastatissime di Muñoz, in una sequenza tagliente di bianchi e neri prelevati sia dalle storiche copertine di casa Blue Note, sia dai classici dell’espressionismo cinematografico d’inizio secolo (Fritz Lang su tutti), rendono toccante e definitiva. Nelle pagine 36 e 35 (dell’edizione italiana) c’è una citazione esplicita del film La Città Del Jazz, con l’incontro tra la Holiday e Armstrong («Pops») e lei, vestita da cameriera, che gli dice, «I servi, Pops. Quello che ci tocca nella vita», in riferimento al loro ruolo ancillare rispetto ai protagonisti bianchi della pellicola. La narrazione di Sampayo, sempre più ellittica, destrutturata, confusa con i rumori d’ambiente e montata su dialoghi così laconici e lapidari da somigliare a sentenze funebri, registra eventi e circostanze in modo frammentario, in una specie di documentario “astratto” accostabile al Jean-Luc Godard di Questa È La Mia Vita (Vivre Sa Vie, 1962) per la retorica al tempo stesso simbolista e straripante di tensione emotiva, mentre il tratto di Muñoz rigurgita il dolore, la fatica, l’incomprensione, la rabbia e l’immoralità dei personaggi in fisionomie cupe, deformate, noir.
Sebbene (di poco) inferiore all’altra biografia sui generis (sarebbe meglio dire interpretazione) realizzata dalla coppia, quel Carlos Gardel (Nuages, 2010) dedicato all’eponimo tanguero franco-argentino e ancora più libero, romantico, nostalgico, teorico e struggente, il Billie Holiday di Muñoz e Sampayo resta un omaggio toccante a una delle figure più complesse e sfuggenti della cultura afroamericana, e non solo, del ‘900 tutto, un personaggio che serve ai due autori per riflettere ancora una volta sull’esilio e lo sradicamento, sulla paura e sulla perdita degli affetti, sull’inaridimento del cuore e sul freddo e sul silenzio dettati dall’estraneità, dal fatto di riconoscersi diversi e dalla necessità di fare i conti con la propria diversità. Nelle prime vignette del racconto, in un fiume orizzontale di note e nuvole, Billie Holiday, con la gardenia d’ordinanza tra i capelli, recita le seguenti frasi: «La mia voce non ha più bisogno del mio corpo. Anche se un tempo ero viva e la mia voce era respiro. Cantavo canzoni che parlavano di me, dell’amore… Di altre donne, dei miei fratelli, dei miei amici cari. E ancora c’è gente che aspetta qualcosa da me. Dalla mia voce rinchiusa nei dischi. Una voce senza corpo da spiare, né vita da scoprire. Vi darò parole in musica. Sfiorerò tutte le tonalità e vi farò sentire… che la mia voce non è solo la voce di Billie, ma viene da una voce che è quella di tutti. Anche se solo io mi chiamo Billie Holiday. Lady Day».
Non c’è bisogno di vederle impresse su grande schermo, o di sentirle recitate da attori, per apprezzarne l’esattezza: si tratta della migliore sequenza possibile, in combinazione di parole immagini, per definire l’essenza di un’artista abituata a considerare la propria voce prima di tutto come uno strumento per esorcismi e liberazioni. «Non penso di cantare. È come se stessi suonando uno strumento», aveva detto Billie Holiday agli storici (e critici) Nat Hentoff e Nat Shapiro durante la raccolta di interviste poi confluite nel basilare Hear Me Talkin’ To Ya: The Story Of Jazz By The Men Who Made It (1955). «Cerco di improvvisare come fanno Les Young, Louis Armstrong o altri musicisti che ammiro. Quanto esce, è quel che sento. Detesto cantare in modo lineare. Se eseguo una canzone, devo cambiarla fino a farla diventare mia. È tutto quello che so».
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